Più facile dare tutta la colpa ai coloni

Trascurando la radicalità del rifiuto palestinese di uno stato ebraico, l’amministrazione Obama ha perso da tempo il pubblico israeliano, anche quello critico verso gli insediamenti

Di David Horovitz

David Horovitz, autore di questo articolo

A mezz’ora dall’inizio della conferenza del Segretario di stato Usa John Kerry, mercoledì sera, Canale 2, la tv più popolare in Israele, ha cessato la diretta e ha dato spazio ad altri programmi. Le altre due principali emittenti televisive del paese, Canale 1 e Canale 10, lo avevano già fatto. Visto che la tirata di Kerry anti-insediamenti e anti-occupazione era diretta principalmente al pubblico israeliano, il comportamento delle tv riflette bene il clima in cui sono state ricevute qui in Israele le lunghe, ma prevedibili, osservazioni del Segretario.

Nel 1999, dopo tre anni quasi senza terrorismo, gli israeliani posero termine al primo mandato del premier Benjamin Netanyahu perché molti di loro ritenevano che esistesse la concreta possibilità di una svolta cruciale verso un accordo di pace con i palestinesi, e che Netanyahu, lungi dall’afferrarla, costituisse un ostacolo. Elessero, in sua vece, l’ex capo di stato maggiore Ehud Barak, che in poco tempo si recò a Camp David. Lì, sotto l’egida competente del presidente Bill Clinton, un serissimo sforzo per arrivare a un accordo finale venne condannato all’insuccesso dall’intransigenza del capo dell’Olp Yasser Arafat, come Clinton avrebbe esplicitamente riconosciuto nelle sue memorie, e in particolare dal rifiuto di Arafat di riconoscere la legittimità di uno stato ebraico.

Molti in Israele, nel 2016, condividerebbero alcuni degli argomenti avanzati da Kerry mercoledì sera. Molti riconoscono i pericoli insiti nell’essere durevolmente intrecciati con milioni di palestinesi ostili, e temono che la crescita degli avamposti collocati a est della barriera di sicurezza aumenti quei rischi e metta a repentaglio la soluzione a due stati, minacciando il carattere ebraico e democratico di Israele. Kerry ha severamente criticato il movimento dei coloni che, a suo dire, sta dettando l’agenda del governo israeliano, e Netanyahu che, a suo dire, permette ad alcune delle voci più estremiste del suo governo di spingere Israele verso l’incubo sionista di un unico stato bi-nazionale tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.

Il Segretario di stato Usa John Kerry durante il discorso di mercoledì sul conflitto israelo-palestinese

Ma trascurando la radicalità dell’opposizione palestinese al fatto stesso che esista uno stato ebraico, il segretario e il suo presidente hanno perso da tempo gran parte del pubblico israeliano, anche molti degli israeliani che sono critici verso gli insediamenti. Pochi israeliani resteranno conquistati dal discorso di commiato di Kerry, con la sua prevedibile fissazione sugli insediamenti. Il presidente e il suo segretario sottovalutano continuamente le cicatrici – fisiche e psicologiche – che l’opinione pubblica israeliana ha accumulato in decenni di guerre, terrorismi e demonizzazioni, mentre i palestinesi e coloro che li sostengono perseguivano la cancellazione di Israele.

Kerry mercoledì ha pronunciato alcune parole sul mondo arabo che alla fine degli anni ‘40 respinse la nascita dello stato ebraico e scatenò la guerra contro di esso. Ha detto che Israele ha dovuto combattere di nuovo per la sua sopravvivenza nel ‘67. E ha anche menzionato terrorismo e istigazione. Ma l’amministrazione Obama non ha mai veramente interiorizzato l’impatto di questi interminabili decenni passati a combattere il tentativo di distruggerci. Ed evidentemente Kerry non ha veramente interiorizzato che, nel crudele e sanguinario Medio Oriente di questi ultimi anni, per la maggior parte degli israeliani parlare dell’eventualità di cedere il controllo sulla adiacente Cisgiordania – con la sua recente storia di fabbriche di bombe suicide, con Hamas che aspetta solo di prenderne il controllo, con il nemico Iran imbaldanzito ad est dall’accordo nucleare di Obama – è proprio questo: solo chiacchiere.

Abbiamo lasciato il sud del Libano e Hezbollah ne ha preso il controllo. Abbiamo lasciato la striscia di Gaza e Hamas ne ha preso il controllo. Quando Kerry esprime la sua “totale fiducia” che le esigenze di sicurezza di Israele in Cisgiordania possano essere soddisfatte con sofisticate difese di confine e roba del genere, semplicemente perde l’opinione pubblica di Israele.

Un giorno presumibilmente Benjamin Netanyahu perderà il potere. Ma, a differenza del 1999, e nonostante la diffusa preoccupazione in Israele per le costruzioni al di là della barriera di sicurezza, è molto improbabile che lo perderà perché gli israeliani pensano che stia ostacolando quella che altrimenti sarebbe una strada aperta verso la pace.

Testo scolastico usato nel 2016 nelle scuole dell’Unrwa: “Coloro la mappa della mia patria coi colori della bandiera palestinese”. Le mappe di tutta la pubblicistica palestinese indicano l’obiettivo di cancellare Israele dalla carta geografica.

Kerry ha impiegato ben poca parte del suo discorso per parlare della violenza e del terrorismo palestinese contro Israele, e ne ha impiegato una gran parte per attaccare gli insediamenti. E per difendere la clamorosa astensione americana al Consiglio di Sicurezza di venerdì scorso. Sembra aver capito che la risoluzione che gli Stati Uniti non potevano “in coscienza” bloccare ha stabilito che tutte le parti di Gerusalemme liberate nel 1967 – compresi il Muro Occidentale, il Monte del Tempio, il secolare quartiere ebraico – sono “territorio occupato palestinese”. E si è sentito in dovere di sottolineare i profondi legami storici e religiosi di Israele con la città santa, e di affermare che la risoluzione “non pregiudica l’esito dei negoziati su Gerusalemme est”. E’ parso anche indicare che gli Stati Uniti non faranno alcun tentativo di imporre i principi da lui enunciati alla fine del discorso incastonandoli in qualche nuova risoluzione Onu. Ma ben pochi israeliani trarranno conforto da queste rassicurazioni, dopo il danno ultimamente inferto a Israele sulla scena internazionale. E chi può dire che uso faranno di quella risoluzione altri paesi o enti, o che uso faranno dei vecchi/nuovi principi enunciati da Kerry?

In definitiva, quella di Kerry mercoledì è stata un’ammissione di fallimento: di non essere stato capace di far avanzare la pace tra israeliani e palestinesi. Al termine di un periodo in cui ha tenacemente cercato di costringere israeliani e palestinesi a fare un accordo, ha infine concluso che ora non si può fare, e forse non si potrà fare per un bel po’ di tempo.

Avrebbe avuto più possibilità di successo – o perlomeno avrebbe potuto creare un’atmosfera in cui le prospettive di successo sarebbero state più brillanti – se si fosse concentrato sul clima tossico che vige fra i palestinesi, implacabilmente indottrinati alla illegittimità di Israele, ribadita in modo martellante in tutte le case da mass-media e social network, dalla loro dirigenza politica e spirituale, spesso nelle loro scuole. Kerry non ha mai veramente fatto i conti con tutto questo. Più facile dare tutta la colpa ai coloni, che ai palestinesi. O magari a se stessi.

(Da: Times of Israel, 28.12.16)