Prima della prossima guerra

Sarebbe ora che si desse da fare quella comunità internazionale sempre pronta a condannare Israele

Da un articolo di Guy Bechor

image_1430I drammatici fatti a Beit Hanoun, mercoledì, e nella città meridionale israeliana di Sderot nel corso degli ultimi anni mostrano che israeliani e palestinesi non dovrebbero più essere lasciati da soli.
L’ascesa del fanatismo politico islamista nei Territori ha reso impossibile qualunque soluzione politica o anche solo una spartizione di fatto, giacché è ormai dimostrato che qualunque porzione di territorio evacuata da Israele, sia essa in Libano o nelle zone dell’Autorità Palestinese, cade immediatamente nelle mani del terrorismo jihadista: un terrorismo violento, distruttivo e sfrenato, che non si ferma davanti a nulla pur di colpire gli israeliani.
Da questo punto di vista, non abbiamo altra scelta se non quella di ammettere che sia un trasferimento di territorio ai palestinesi in modo ordinato, come nel caso del processo di Oslo, sia un abbandono come nel caso del disimpegno dello scorso anno, non si sono rivelati fruttuosi.
Oggi non c’è legge né diritto, nell’Autorità Palestinese, una terra dove imperversano bande armate, clan e gruppi che considerano il terrorismo che imperversa in Iraq e la prepotente leadership di Ahmadinejad come modelli da imitare. Gaza è stata trasformata in una Somalia, cioè una terra di nessuno.
Ora sembra che i palestinesi si stiano attrezzando per una nuova offensiva su vasta scala contro Israele che potrebbe avvenire nell’arco di circa sei mesi, dopo che le tonnellate di armi, missili e munizioni contrabbandanti dall’Egitto e accumulati nella striscia di Gaza avranno raggiunto la massa critica. A quel punto è probabile che vogliano mettere in campo un’operazione militare in grande stile per poi cantare vittoria, pur sapendo bene quale prezzo dovranno pagare, e cioè la rioccupazione della striscia di Gaza.
Dopo un tale scontro, il mondo forse si rimboccherà finalmente le maniche, come nel Libano meridionale. E poi manderà una significativa forza di peacekeeping, come l’Unifil. L’invio di questa forza stabilizzerà la situazione, ma non offrirà nessuna garanzia contro futuri attacchi del terrorismo palestinese. Ciò che stanno facendo le forze di peacekeeping in Libano e ciò che farebbero nei Territori non sarebbe altro che procurare qualche fastidio a palestinesi e israeliani nell’arena internazionale qualora decidessero di tornare all’attacco, sperando che questo sia un deterrente sufficiente.
Una seconda possibilità, alla luce di quanto accaduto mercoledì a Beit Hanoun, potrebbe essere che le forze internazionali di peacekeeping vengano mandate sin d’ora. In questo modo, stando all’analisi fin qui fatta della situazione, si potrebbe prevenire la guerra che è già in cantiere per la prossima primavera-estate. I morti di mercoledì nella striscia di Gaza e gli incessanti lanci di missili Qassam verso le città del sud di Israele dovrebbero essere sufficienti per spingere il Consiglio di Sicurezza ad impegnarsi e proporre una risoluzione di peacekeeping simile a quella che si cerca di applicare in Libano. Non è granché, ma rispetto al niente che regna oggi – vero brodo di coltura per il terrorismo delle bande armate – è già molto.
In questo caso, la striscia di Gaza potrebbe passare sotto responsabilità della comunità internazionale sia sul piano militare che umanitario. Finalmente il disimpegno diventerebbe un vero disimpegno israeliano da Gaza, i palestinesi dal canto loro diventerebbero un problema della comunità internazionale la quale, a sua volta, dovrebbe contenere in modo significativo i lanci di missili contro Israele. Gaza resterebbe parte del mondo arabo perché il suo confine con l’Egitto resterebbe aperto, ma non sarebbe più collegata a Israele, con il confine fra Israele e Autorità Palestinese chiuso definitivamente. Quello che accadrà all’interno – se i palestinesi arriveranno all’indipendenza o meno – sarà cosa sotto responsabilità della comunità internazionale, quella che oggi condanna Israele.
Se le cose andassero bene, un modello analogo potrebbe essere applicato anche alla Cisgiordania, ultimo confine di Israele ancora da mettere a posto. In questo modo la barriera difensiva avrebbe uno scopo. Forze internazionali attornierebbero Israele da nord, a est a sud, con l’auspicio che stabilizzino i confini di Israele per gli anni a venire.
Nonostante i buoni propositi del disimpegno, oggi la striscia di Gaza rimane di fatto una responsabilità israeliana, con il resto del mondo seduto a guardarla da lontano sui suoi schermi televisivi. È ora che Israele si tiri indietro e si metta a guardare come la comunità internazionale saprà cavarsela a Gaza. Gli occidentali sempre pronti a condannare Israele farebbero bene a darsi da fare. Sarebbe ora che toccasse a loro.

(Da. YnetNews, 10.11.06)