Profughi siriani: imperativi morali ed esigenze vitali

Aiutare è doveroso, ma non c'è dubbio che per Israele un afflusso di centinaia di migliaia di profughi da paesi ostili significherebbe un condanna a morte

Di Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Lo scorso settembre il corpo di un bambino siriano, Aylan Kurdi, venne gettato dalle onde su una spiaggia di Budrum, in Turchia. Fu un punto di svolta. Migliaia di europei scesero in piazza per dimostrare solidarietà e compassione, e manifestare la volontà di accogliere più rifugiati. Ma da allora le scene strazianti non hanno fatto che aumentare. Nei giorni scorsi decine di migliaia di persone sono fuggite dalla città di Aleppo. Hanno una sola via di fuga, verso la Turchia, e presto anche quella sarà loro preclusa. Assad non ha nulla da temere. Omar al-Bashir, responsabile dello sterminio nel Darfur, è regolarmente ospitato con tutti gli onori nelle conferenze della Lega Araba, o di quel che ne rimane, e in quasi tutte le capitali dei paesi musulmani. Quando Assad avrà vinto, tutto sarà dimenticato e perdonato.

E noi, cosa facciamo? Cosa ci impone di fare la nostra coscienza umana e l’etica ebraica? Quale significato diamo alle parole “mai più”?

Israele cura i feriti della guerra civile siriana che giungono alla frontiera. A centinaia. Se qualcuno pensa che incrementare e pubblicizzare queste cure possa contribuire a migliorare l’immagine di Israele nella coscienza del mondo e del Medio Oriente, e ridurre l’odio verso Israele, farebbe bene a ricredersi. I palestinesi, grazie ai servizi sanitari israeliani, hanno una mortalità infantile inferiore e una speranza di vita più lunga di quelle che avevano prima e di quelle che hanno oggi tutti gli altri arabi. Forse che questo ha attenuato il livello di odio? I nemici di Israele non esitano a raccontare una storia tutta al contrario. José Saramago, premio Nobel per la letteratura, equiparò i territori palestinesi ad Auschwitz, e il parallelo tra Israele e la Germania nazista è diventato un fatto di routine. Se dobbiamo aiutare le vittime della guerra siriana è solo per motivi umanitari, senza aspettarci da questo nessun tornaconto.

Feriti siriani curati in un ospedale israeliano

Feriti siriani curati in un ospedale israeliano

E’ una faccenda complicata. L’Europa, un paese dopo l’altro, arriva alla conclusione che non vuole altri profughi. Le porte si stanno chiudendo. Anche la Svezia ha chiuso il ponte di Oresund e ha annunciato che decine di migliaia di richiedenti asilo verranno espulsi. Molestie sessiste di massa, come a Colonia, si sono verificate anche in Svezia, solo che i mass-media locali le hanno tenute nascoste. La correttezza politica sta diventando un boomerang. L’assassinio a coltellate di un’operatrice in un centro profughi ad opera di un adolescente (ricorda nulla?) ha gettato altra benzina sul fuoco. Ma non è iniziato tutto con l’ultima ondata di profughi: è una situazione che va avanti da anni.

Dunque cosa possiamo fare, come ebrei e israeliani? Certo non possiamo dimenticare la Conferenza di Evian del 1938, quando praticamente tutti i paesi del mondo dissero che non potevano accogliere profughi i ebrei in fuga dalla Germania nazista, e non possiamo dimenticare la sorte dei profughi sulla nave St. Louis. Ciò impone a Israele di aprire le porte e allestire campi profughi, come avviene in Turchia, Giordania e Libano?

Medici israeliani prestano assistenza a profughi siriani in Grecia

Medici israeliani prestano assistenza a profughi siriani in Grecia

C’è purtroppo una differenza sostanziale. Anche in questi giorni, mentre i miserabili si scannano fra di loro, da Aleppo si levano grida di “morte a Israele” e “morte agli ebrei”. Lo gridano praticamente tutte le parti coinvolte nel conflitto intestino siriano. A volte con determinazione, a volte solo per uniformarsi al coro. Ma è un dato di fatto che questo è lo spirito prevalente: genti cresciute nell’odio verso Israele e gli ebrei. Non c’entrano nulla l’occupazione della Cisgiordania o la barriera difensiva israeliana o altre scuse. L’odio irriducibile verso Israele ed ebrei prospera persino in Pakistan.

Angela Merkel dice che i profughi torneranno al loro paese con l’avvento della pace. Staremo a vedere. Ma per Israele è fuor di dubbio che un afflusso di centinaia di migliaia di profughi da paesi ostili significherebbe un condanna a morte. Il che non significa restare indifferenti alle sofferenze umane. Bisogna insistere con gli aiuti umanitari, e nel caso di un concreto pericolo di sterminio di massa bisognerà pensare al modo di istituire dei campi-rifugio appena al di là del confine. Ma all’interno di Israele non c’è modo di accogliere migliaia di questi profughi. L’imperativo morale, universale ed ebraico, impone di prestare aiuto e soccorso. Non di commettere suicidio.

(Da: YnetNews, 9.2,16)