Qualche piccola verità dalle zone di conflitto

Il vero ostacolo alla pace è la caccia all’ebreo considerata come una cosa normale.

Di Yaniv Blumenfeld

image_3422La scorsa settimana sono tornato da un mese di richiamo da riservista trascorso in Giudea e Samaria (Cisgiordania). Era il mio primo turno di servizio nei territori da quando ho terminato la leva obbligatoria nelle Forze di Difesa israeliane.
Senza dubbio le cose appaiono differenti quando si ha qualche anno di più. Situazioni diverse diventano più chiare e ne emergono nuove conclusioni. Scordatevi tutto quello che avete sentito: posti di blocco, controlli, umiliazioni, apartheid? Qui non troverete niente del genere. Quella che ho incontrato è una realtà del tutto diversa, e queste che seguono sono le mie impressioni.
Ognuno ha il diritto di rimanere scioccato da cose diverse, in base alla propria ideologia, alla propria moralità, ai propri valori e punti di vista. Alcuni considerano un crimine morale una pattuglia di soldati che trattiene un palestinese per un controllo di sicurezza, e ne rimangono profondamente scossi. Io ho preferito rimanere colpito da altre cose.
Sono rimasto colpito nel rendermi conto che vi sono dei cittadini israeliani che vivono la loro routine quotidiana sotto una costante minaccia di vita, e vi sono comunità ebraiche (solo quelle ebraiche) che devono essere circondate da una recinzione di filo spinato affinché chi vi abita non venga immediatamente trucidato. Tutto a un tratto ho capito quanto sia scioccante stare appostato nel fango, nei pressi di una comunità ebraica, alla vigilia di una festività ebraica, appunto per evitare l’assassinio di ebrei da parte della popolazione circostante: naturalmente una festa ebraica è la data perfetta per un gruppo terrorista che voglia fare ancora un po’ di male agli ebrei. Mi ha scioccato che degli ebrei non possano passeggiare nello wadi attiguo alla loro comunità, che non possano entrare nei villaggi vicini perché non ne uscirebbero vivi, che i loro movimenti siano limitati, che in certe ore non possano uscire dalla loro comunità e che debbano fare costantemente i conti con il rischio di essere presi a pietrate, a fucilate o di essere linciati.
Da anni si sente dire che la presenza di ebrei in quei territori costituirebbe l’unico vero ostacolo alla pace, e intanto si trova ogni sorta di giustificazione per il terrorismo sanguinario. Non si racconta del massacro della comunità ebraica di Hebron del 1929: ben 38 anni prima che Giudea e Samaria venissero conquistate. Non si dice che tra il 1948 e il 1956 più di trecento civili ebrei vennero assassinati in attacchi terroristici “palestinesi”. Non si dice che l’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, venne fondata nel 1964, tre anni prima che Giudea e Samaria venissero conquistate sotto il comando dell’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin. Finora ogni territorio ceduto ai palestinesi è stato usato per impiantare strutture terroristiche, e l’ultimo esempio – lo sgombero di Gush Katif, nella striscia di Gaza (2005) – lo dimostra nel modo più chiaro ed evidente.
I palestinesi non traggono il loro odio per Israele dal soldato in servizio al posto di blocco. Questa perlomeno è la mia opinione. Essi traggono il loro odio dalle tv dell’Autorità Palestinese e di Hamas, dove gli ebrei vengono paragonati a scimmie e maiali degni solo di morire. Traggono il loro odio dall’istigazione nelle moschee, nelle scuole, nelle foto dei “martiri” che addobbano ogni muro e ogni piazza delle città di Giudea e Samaria. Traggono la motivazione a odiare dalle icone culturali palestinesi, da Marwan Barghouti e dallo stragista Yasser Arafat. Traggono ispirazione dalle piazze e dagli stadi intitolati alla memoria di terroristi. Anni di martellante istigazione e de-umanizzazione d’Israele ottengono il loro effetto.
Con rammarico ho capito che l’equazione è chiara e semplice: senza la presenza di noi soldati, qui si assisterebbe immediatamente a una carneficina di ebrei per mano di arabi tale da far sembrare il pogrom del 1929 un gioco da ragazzi.
Non c’è dubbio che i soldati delle Forze di Difesa israeliane si trovano ad operare in situazioni complicate quando prestano servizio nei territori. I miei compagni e io non ci siamo andati con l’idea di vedere scorrere il sangue – il cielo non voglia – né di umiliare o calpestare l’onore dei palestinesi. È vero esattamente il contrario. Siamo stati educati nei valori del sionismo, della tolleranza e del desiderio di pace, indipendentemente dalle opinioni di destra o di sinistra. So bene che la vera sinistra non ha niente a che vedere con gli estremisti e i violenti (locali e stranieri) che si radunano ogni venerdì per prendere a sassate i soldati. Per me la vera sinistra ha a che fare con Rabin, che possa riposare in pace, col sionismo, con le creazioni del lavoro, con l’amicizia. Anche se non sempre siamo d’accordo, continuiamo a batterci spalla a spalla. E se mettiamo da parte per un momento il dibattito politico, io mi sento fiero d’aver prestato servizio in Giudea e Samaria. Sono fiero che, grazie a me e ai miei compagni riservisti, gli abitanti abbiano celebrato la Pasqua al sicuro, senza essere ammazzati. Sono fiero che il posto di blocco dove ho prestato servizio abbia impedito il passaggio al di là della Linea Verde di un uomo armato di pugnale e di un ordigno esplosivo. Sono fiero che la mia presenza abbia evitato il lancio di pietre contro le auto di ebrei. E sono fiero di svolgere questo compito che è quello di impedire che degli esseri umani vengano colpiti o uccisi.

(Da: YnetNews, 05.02.12)

Nella foto in alto: Yaniv Blumenfeld, 25 anni, autore di questo articolo

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