Quale normalizzazione?

Israele dovrà presentare una concreta e precisa definizione di ciò che chiede in fatto di “normali relazioni” con i paesi arabi

di Oded Eran

image_2498L’esca offerta a Israele dall’iniziativa di pace araba del 2002 – in cambio di un completo ritiro sulle linee pre-’67, del riconoscimento di Gerusalemme est come capitale dello stato palestinese e di una “giusta” soluzione della questione dei profughi – è la fine del conflitto arabo-israeliano e “normali relazioni”. Re Abdullah di Giordania, in un’intervista al Times di Londra, promette che Israele sarà accolto “a braccia aperte” da 57 stati arabi e musulmani, sostenendo che oggi, invece, sono più numerosi i paesi che riconoscono la Corea del Nord di quelli che riconoscono Israele.
Perdere un concorso di bellezza diplomatica contro un regime depravato come quello della Corea del Nord non è certamente piacevole, anche se ad un rapido controllo si scopre che, per la verità, sono più numerose le missioni diplomatiche in Israele che non quelle in Corea del Nord. E vale anche la pena notare che più di un terzo delle missioni diplomatiche a Pyongyang sono proprio quelle dei paesi arabi e musulmani.
Ma se Israele deve cercare di risolvere il conflitto è per ragioni ben più importanti che non sia ottenere maggior riconoscimento della Corea del Nord. Una soluzione è vitale per preservare il carattere ebraico e democratico dello stato.
Nondimeno, è opportuno esaminare attentamente ciò che ci viene offerto in cambio. I due precedenti costituiti dagli accordi di pace che Israele ha firmato con Egitto (1979) e Giordania (1994) non sono granché incoraggianti per quanto riguarda le “normali relazioni”. Decine di concessioni, memoranda d’intesa e addenda relativi ad ogni possibile aspetto di queste relazioni non sono riusciti a impedire che quei legami restassero sterili e ridotti all’osso. Non si vuole minimizzare il fatto che gli accordi hanno evitato il pericolo di conflitti armati fra Israele e i suoi due importanti vicini, e senz’altro è assai importante il dialogo sulla sicurezza che si è instaurato con loro. Il che di per sé impone di continuare ad attenersi agli accordi di pace. E tuttavia, questo non è certo il tipo di legami che Israele desidera. La società civile egiziana, comprese le sue elite, ha continuato a boicottare Israele, e non certo perché manca ancora una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Ed è difficile aspettarsi con la Giordania, i due terzi della cui popolazione sono di origine palestinese, delle “normali relazioni” che vadano al di là del dialogo fra i due governi, sebbene anche questo si sia attenuato negli ultimi anni.
La mancanza di “legami normali” non è solo colpa dei governi e delle società civili egiziana e giordana. Anche vari governi israeliani hanno perso delle occasioni per forgiare legami più stretti, specie quando si sono piegati alle pressioni di vari gruppi di interesse che non gradiscono la competizione in fatto di porti marittimi, aeroporti e impianti energetici.
Se e quando si terranno negoziati con la Siria e coi palestinesi, e se l’iniziativa araba sarà messa in agenda, Israele dovrà presentare una definizione di ciò che chiede in fatto di “normali relazioni” che sia molto più concreta e precisa di quanto non fosse quella utilizzata negli accordi di pace con l’Egitto. Impianti regionali per la desalinizzazione, acquedotti e oleodotti, linee di telecomunicazione, uso congiunto di infrastrutture come aeroporti e porti a Aqaba e Haifa: tutto questo, e altro ancora, è ciò che potrebbe far germogliare un insieme di interessi più condivisi di quanto non venga offerto dalle “braccia aperte” di centinaia di milioni di musulmani.
Quando l’arsenale atomico del Pakistan, che è uno dei più grandi paesi musulmani, rischia di cadere nelle mani di elementi estremisti, la questione se la Filarmonica di Karachi verrà o meno a Tel Aviv non dovrebbe essere la principale preoccupazione di re Abdullah, di Barak Obama o di Benjamin Netanyahu.

(Da: Ha’aretz, 17.05.09)

Nella foto in alto: Oded Eran, autore di questo articolo