Quando Arafat rifiutò pace e indipendenza

"Presidente Arafat - rispose Clinton - io sono un fallimento, e questo grazie a lei».

Di Bill Clinton

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«Il 23 dicembre 2000 – scrive l’ex presidente americano Bill Clinton nel suo libro di memorie recentemente pubblicato negli Stati Uniti – fu un giorno fatale per il processo di pace in Medio Oriente. Invitai le due parti a Washington per un ultimo tentativo e, dopo che ebbero negoziato per diversi giorni, io e il mio team ci convincemmo che se non avessimo ristretto l’ambito delle trattative, forzando le parti a scendere a compromessi sostanziali, non vi sarebbe mai stato un accordo. Arafat temeva di essere criticato da altri leader arabi; Barak stava perdendo terreno in patria a favore di Sharon. Pertanto feci ciò che non molto tempo prima sarebbe stato impensabile: invitai la delegazione palestinese e quella israeliana ad accomodarsi nella Cabinet Room e lessi loro i miei “parametri” per l’ avanzamento del negoziato, messi a punto dopo lunghe conversazioni private tenute separatamente con le due parti dopo Camp David. Se li avessero accettati entro quattro giorni, avremmo proseguito. In caso contrario, l’incontro era chiuso. Il 27 l’esecutivo di Barak accettò i parametri con alcune riserve, che apparivano negoziabili. Si trattava di un fatto storico: un governo israeliano aveva dichiarato che per raggiungere la pace avrebbe accettato la nascita di uno stato palestinese in circa il 97% della Cisgiordania e in tutta la striscia di Gaza, dove c’erano insediamenti israeliani. Ora la palla passava ad Arafat. (…) Ancora non avevo avuto notizie da Arafat. Il Capodanno del 2001 lo invitai alla Casa Bianca per il giorno dopo. (…) Quando Arafat arrivò, mi pose molte domande sulla mia proposta. A volte sembrava confuso, come se non avesse il completo controllo degli avvenimenti. (…) Forse non era semplicemente capace di compiere il salto finale da rivoluzionario a uomo di stato. (…) Quando Arafat partì, non avevo ancora idea di quali fossero le sue intenzioni. Le espressioni del suo volto e i suoi gesti mi dicevano che non avrebbe accettato, ma l’accordo era così buono che non riuscivo a credere che qualcuno potesse essere così sciocco da lasciarselo sfuggire. In una delle nostre ultime conversazioni Arafat mi ringraziò per tutti i miei sforzi e mi disse che ero un grand’uomo. “Signor presidente – risposi – non sono un grand’uomo. Sono un fallimento, e questo grazie a lei”. Lo avvertii che stava praticamente spianando la strada all’elezione di Ariel Sharon e che avrebbe raccolto quello che aveva seminato. In febbraio Sharon fu eletto primo ministro a stragrande maggioranza. Gli israeliani avevano deciso che se Arafat non avesse accettato la mia offerta, non avrebbe ottenuto proprio niente e che, in mancanza di una controparte disposta a concludere la pace, sarebbe stato meglio essere guidati dal leader più aggressivo e intransigente sulla piazza. (…) Quasi un anno dopo la fine della mia presidenza, Arafat mi disse di essere pronto a negoziare sulla base dei parametri da me proposti. Ma era troppo tardi: in Israele c’erano un governo che non sarebbe stato morbido con lui e un’opinione pubblica che non credeva che avrebbe tenuto fede alla parola data. Il rifiuto di Arafat fu un errore di dimensioni storiche. Ma non tutto è perduto. Molti palestinesi e israeliani sono ancora impegnati per la pace. Un giorno la pace si realizzerà e probabilmente sarà il frutto di un accordo non molto dissimile dalle proposte che uscirono da Camp David nel luglio 2000 e nei sei lunghi mesi successivi.»

(Da: Corriere della Sera, 24.06.04 – Traduzione di Language Consulting Congressi © 2004 William Jefferson Clinton © 2004 Arnoldo Mondadori Editore)