Quarant’anni fa, la folgorante vittoria a Entebbe contro il terrorismo

La minaccia che allora appariva senza precedenti si è successivamente concretizzata nell’inimmaginabile. Ma come allora, può essere sconfitta

Editoriale del Jerusalem Post

L'arrivo in Israele degli ostaggi liberati dopo una settimana di cattività a Entebbe

L’arrivo in Israele degli ostaggi liberati dopo una settimana di cattività a Entebbe

L’imperativo categorico ebraico di salvare ogni vita umana perché ogni vita è come un mondo intero forse non ha mai trovato migliore applicazione che nella missione di salvataggio di Entebbe, il cui 40esimo anniversario cade esattamente questo 4 luglio: un’impresa incredibile che coniugò determinazione politica, eroismo e precisione militare nel superare la sfida titanica di un’operazione antiterrorismo condotta a circa 4.000 chilometri da casa. Ma i soldati delle Forze di Difesa israeliane che seppero affrontare e superare quella sfida avevano il sostegno compatto di un’intera nazione.

Questa solidarietà di fronte al pericolo è un valore aggiunto della società israeliana. La guerra tutt’ora in corso contro il terrorismo si combatte oggi su fronti diversi da quelli dei tempi di Entebbe. In quell’epoca, paradossalmente più tranquilla, i palestinesi dirottavano aerei civili e prendevano ostaggi. Ci son volute due intifade per introdurre l’attentato suicida come tecnica preferita dall’anti-sionismo (poi allargata a tutto il mondo, fino a ritorcersi all’interno dello stesso mondo arabo-musulmano).

Il 27 giugno del 1976 il volo Air France 139 decollò da Tel Aviv con 246 passeggeri e 12 membri di equipaggio. Durante uno scalo ad Atene imbarcò altri 58 passeggeri, tra cui quattro dirottatori. Subito dopo il decollo per Parigi il volo venne preso in ostaggio da due palestinesi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e due tedeschi delle Cellule Rivoluzionarie Tedesche. Atterrati infine in Uganda (il cui regime del dittatore Idi Amin Dada simpatizzava per i terroristi), i sequestratori separarono gli ebrei e gli israeliani dagli altri ostaggi, che vennero rilasciati. Agli ostaggi, questa divisione squisitamente antisemita dei passeggeri ricordò le selezioni naziste dei campi di sterminio con cui si decideva chi sarebbe sopravvissuto e chi sarebbe stato mandato alla morte. Un passeggero sopravvissuto alla Shoà ha raccontato d’aver mostrato a uno dei terroristi tedeschi il numero che i nazisti aveva tatuato sul suo braccio. E quello ebbe il coraggio di rispondergli: “Io non sono un nazista, io sono un idealista”.

Il quotidiano Voice of Uganda: "

Titolo del quotidiano Voice of Uganda: “Gli israeliani invadono Entebbe”

La vicenda dell’Operazione Thunderbolt è ben conosciuta. Questo era il nome in codice assegnatole dalle Forze di Difesa israeliane, ma oggi è più nota come Operazione Entebbe (dal nome dell’aeroporto ugandese dove ebbe luogo) o Operazione Yonatan, in onore del tenente colonnello Yonatan (Yoni) Netanyahu, l’unico soldato caduto durante la missione. Era il fratello dell’attuale primo ministro israeliano.

Tre gli ostaggi ebrei che rimasero uccisi nel violento fuoco incrociato fra soldati israeliani, terroristi e soldati ugandesi. Una quarta persona sequestrata venne assassinata a sangue freddo nell’ospedale di Kampala dove era stata ricoverata. Anche loro meritano di essere ricordati in questo giorno: Jean-Jacques Maimoni, 19 anni, immigrato francese in Israele, disgraziatamente colpito quando, alzatosi in piedi, venne scambiato per un terrorista; Pasco Cohen, 52 anni, che gestiva un fondo di assicurazione sanitaria, e Ida Borochovitch, 56 anni, immigrata dalla Russia, rimasti uccisi nel fuoco incrociato. Il quarto ostaggio, la 75enne israelo-britannica Dora Bloch, era stata ricoverata nell’ospedale Mulago di Kampala per un principio di soffocamento, e venne assassinata da militari dell’esercito ugandese. Nel 1987 l’ex ministro della giustizia ugandese Henry Kyemba disse alla Commissione ugandese per i diritti umani che Dora Bloch venne strappata dal letto d’ospedale e uccisa da due ufficiali dell’esercito su ordine diretto del presidente Idi Amin. Le sue spoglie vennero recuperate nel 1979.

Ma la vendetta di Amin dopo il raid non si fermò lì. L’allora ministro dell’agricoltura kenyota Bruce MacKenzie aveva convinto il suo presidente Jomo Kenyatta a lasciare che Israele raccogliesse cruciali elementi di intelligence in vista del raid, e a permettere agli aerei israeliani l’uso logistico all’aeroporto di Nairobi. Nel maggio 1978 Amin inviò agenti ugandesi ad assassinare MacKenzie facendo esplodere il suo aereo.

Titolo dell’Herald Tribune: “Truppe israeliane aviotrasportate salvano gli ostaggi del dirottamento”

Se è vero che tecniche e modalità del terrorismo sono mutate nel corso del tempo (costrette in parte delle sempre più efficaci contromisure), certe reazioni del mondo sembrano invece rimaste sempre uguali da quarant’anni fa a oggi. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite venne convocato il 9 luglio del 1976 per ascoltare la vibrata denuncia dell’Organizzazione per l’Unità Africana contro “l’atto di aggressione” di Israele. L’allora segretario generale dell’Onu Kurt Waldheim (giàufficiale dell’intelligence della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale) disse al Consiglio di Sicurezza che il raid costituiva “una grave violazione della sovranità di uno stato membro delle Nazioni Unite”. Salvo poi precisare – bontà sua – che era “ben consapevole che questo non è l’unico elemento della vicenda, nel momento in cui la comunità mondiale deve affrontare problemi senza precedenti derivanti dal terrorismo internazionale”.

Ciò che poteva apparire senza precedenti quarant’anni fa si è successivamente concretizzato nell’inimmaginabile. Ma quarant’anni dopo, quella che fu una delle più fiere vittorie contro il terrorismo rifulge ancora abbastanza da indicare la strada nella lotta, in gran parte ignota, che ci attende.

(Da: Jerusalem Post, 3.7.16)