Quasi alla luce del sole

Un toccante documentario israeliano descrive la vita di tre donne che si battono per il diritto di amare altre donne allinterno della comunità ortodossa

image_887Nel 2000, Ilil Alexander era solo una diplomata della Scuola del Cinema dell’Università di Tel Aviv che cercava lavoro. Cinque anni dopo, eccola di fronte ad un pubblico entusiasta alla prestigiosa Agenzia delle Arti Creative a Beverly Hills.
Sponsorizzata dalla Fondazione Nazionale per la Cultura Ebraica (che le ha fornito i fondi per completare il suo primo film) insieme alla Federazione Ebraica di Los Angeles, Alexander è in città per promuovere il suo primo documentario – Keep not Silent (“Non restare in silenzio”) – prima di andare a San Francisco dove il film aprirà il Festival Ebraico di San Francisco.
Completato nel 2004, è un documentario che ha vinto un gran numero di premi locali e internazionali, tra cui l’Oscar israeliano per il Miglior Documentario del 2004. E, come qualunque buon lavoro, è un film che ha fatto parlare di sé.
Keep not Silent segue tre donne ortodosse di Gerusalemme. Quello che le rende uniche è che tutte e tre sono lesbiche, membri di un gruppo di sostegno chiamato ‘Ortho-Dykes’ e tutte combattono per trovare il modo di venire a patti con la loro situazione e rimanere lo stesso parte della comunità ortodossa ed esserne accettate.
E’ un film acuto e commovente, in cui ognuna delle donne vuole confrontarsi con la dolorosa dualità della sua situazione, non solo con la famiglia e i rabbini, ma alla fine anche con la Alexander e, naturalmente, con il pubblico.
Quello che rende il film della Alexander così potente è che è riuscita a guadagnarsi la fiducia delle tre donne in un periodo di quattro anni. Si è anche conquistata la fiducia del marito di una delle tre ed egli parla apertamente di come permette a sua moglie di incontrare la sua amante parecchie volte alla settimana.
Da un punto di vista puramente cinematografico, la Alexander aveva un compito molto difficile: trovare il modo di connettere le donne del documentario con il pubblico, pur sapendo che mai poteva svelare le loro facce, per paura della reazione che le avrebbe colpite nella loro chiusa comunità.
Ma non ha mai rinunciato. Dice che non rimpiange per un momento i quattro anni che ci sono voluti per completare il film. “Era così difficile da fare cinematograficamente – dice – Ma non volevo rinunciare. Volevo continuare il film perché tratta di ebrei che nonostante tutto rimangono nel mondo religioso”.
Ci sono altre donne in situazioni analoghe, continua la Alexander, che alla fine abbandonano l’ortodossia. “Ma queste sono donne che vogliono avere un posto nel loro mondo e che lottano perché sia così”.
Quali che siano i ragionamenti di Alexander, il film ha chiaramente toccato corde sensibili nel pubblico di tutto il mondo. Keep not Silent non solo ha vinto il premio del Festival del Documentario DocAviv, ma anche il premio del pubblico al Festival del Film ebraico di Berlino, il premio della libertà al Festival del film gay e lesbico di Los Angeles, ed è stato acclamato dalla critica in Gran Bretagna (dove è stato candidato al premio Grierson come miglior documentario internazionale per la televisione), a vari festival negli Usa, oltre che in Corea, Australia e Canada, per citarne solo qualcuno.
La Alexander dice che non è in grado di dire con precisione che cos’è che ha decretato il successo del film, ma che potrebbe aver qualcosa a che fare con “la quantità d’amore che è stata messa in questo film ed il fatto che, a causa degli ostacoli che ho dovuto affrontare, sono stata costretta ad essere cinematograficamente molto creativa”.
Alcune delle tecniche a cui Alexander si riferisce sono l’uso di una tenda lavorata per delineare il profilo di uno dei mariti delle donne, mostrando solo le mani o i capelli o la schiena di un’altra donna. E una delle donne (Miriam) è ripresa solo per mezzo di una connessione internet sullo schermo di un computer. Solo più tardi la Alexander mi informò che Miriam è uscita allo scoperto al Festival del film ebraico di San Francisco. Dopo aver lavorato fianco a fianco con lei, Miriam decise finalmente che era ora di mostrare letteralmente la sua faccia. La Alexander dice che è stata un’esperienza molto positiva. Anzi, lei era così preoccupata che i membri della comunità ortodossa di Gerusalemme prendessero coscienza di chi erano queste donne in mezzo a loro, che aveva rifiutato offerte di programmare il film su Canale 1 o Canale 2. Fino ad oggi, solo il Canale 8 via cavo lo ha programmato (già quattro volte: un record). Dice la Alexander: “E’ improbabile che quella comunità abbia accesso a questo canale”.
La Alexander trova divertente che la gente si sorprenda nello scoprire che lei non è né ortodossa né lesbica. Per lei, l’idea del film nacque nel 1996 quando, dopo un attentato suicida a Gerusalemme, il cadavere di una donna rimase sconosciuto. Si scoprì poi che la donna apparteneva a una famiglia ortodossa di Mea Shearim che l’aveva scomunicata dopo aver scoperto che era lesbica.
Inorridita dalla storia, la Alexander racconta di aver mandato e-mail e affisso messaggi per trovare gente disposta a parlarle di questa donna e della sua vita. Da lì, arrivò a mettersi in contatto con Ortho-Dykes e finalmente trovò tre donne disposte a farsi filmare.
La Alexander cita Avi Mugrabi e Anat Zuria come due dei registi locali che ammira. “Apprezzo davvero i film che hanno concetti unici – dice – E il mio film solleva questioni profonde e non solo sui problemi religiosi”.
Non essendo tipo da riposarsi sugli allori, la Alexander ha almeno altre quattro progetti in cantiere. Il suo prossimo film verte sulla violenza domestica e l’esplorazione della terapia di gruppo, sia per l’uomo che per la donna. Sta anche per andare in Tibet per lavorare a un film sulla ricerca dell’erede del Dalai Lama.
Prima però andrà in Svizzera per presentare Keep not silent ad un altro Festival. Dice che spera che il pubblico esca dalla proiezione con molte domande.
“Non mi importa delle risposte – dice con entusiasmo – Il mio scopo è quello di sollevare interrogativi, perché una volta che uno si pone le domande, si rende conto di non avere tutte le risposte”.
Seguendo le tre lesbiche ortodosse, il documentario di Ilil Alexander rivela le due vite dolorose di una poco appariscente comunità Ortho-dyke.

(Da: Jerusalem Post, 6.09.05)