Quel che Kerry sa e non dice

Il segretario di stato Usa non ha attribuito la colpa dello stallo alla parte che impedisce il negoziato.

Di Dan Margalit

image_3773Tredici anni fa, quando i colloqui di pace israelo-palestinesi a Camp David giunsero a un punto morto, l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, intervistato dal giornalista Ehud Yaari dal Canale 2 della tv israeliana, affermò senza mezzi termini che la colpa del fallimento dei negoziati era da attribuire al presidente dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat. Fu la prima volta che gli Stati Uniti si scostarono ufficialmente dal loro abituale atteggiamento neutrale fra le parti e prendevano una chiara posizione sulla questione. Ci volle molto tempo prima che Yossi Ginosar (che era stato l’inviato dell’allora primo ministro israeliano Ehud Barak) e Yossi Sarid, presidente del Meretz, riuscissero a riprendersi dall’autorevole dichiarazione americana e a dare la colpa a Barak per lo sconfortante risultato di quel summit del luglio 2000.
Domenica scorsa il segretario di stato americano John Kerry avrebbe potuto trarre ispirazione da quella pagina della presidenza Clinton e indicare esplicitamente nella parte palestinese la causa dello stallo dei colloqui di pace. Ma Kerry non lo ha fatto, molto probabilmente perché non è ancora arrivato al livello di esasperazione di Clinton. Anche se non ha potuto rinviare la pausa del suo tour nella regione, per come la vede lui la sua prossima visita non sarà un tentativo di resuscitare un defunto processo di pace, quanto piuttosto un tentativo di portare avanti le trattative. Questa posizione, che naturalmente sta bene al primo ministro Benjamin Netanyahu, si basa su altri elementi e soggetti molto addentro alle trattative che hanno avuto luogo negli giorni scorsi sul triangolo Gerusalemme-Amman-Ramallah.
Netanyahu e il ministro di giustizia Tzipi Livni (che è anche responsabile per i negoziati di pace israelo-palestinesi insieme all’ incaricato di Netanyahu, Yitzhak Molcho) hanno raggiunto un’intesa con gli americani che comportava una certa flessibilità da parte israeliana. Ma i palestinesi l’hanno snobbata. Gli americani, che sono arrivati a conoscere la posizione di Israele attraverso Netanyahu, Livni e Molcho, sanno come stanno realmente le cose. E capiscono come mai il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat insiste nel sostenere che i progressi fatti sono pochi o nessuno. Mentre Netanyahu si è mostrato flessibile con Kerry, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si è impaurito e appiattito davanti ai suoi rivali nella piazza palestinese e forse anche davanti a se stesso. Queste trattative sono a esito annunciato, sono un copione già scritto e i palestinesi lo stanno seguendo come se fosse stato dato ad Abu Mazen dalla Mecca inciso su tavole di pietra.
Il che non significa che la ripresa del processo di pace israelo-palestinese sarebbe semplice per Netanyahu sul piano politico interno. Al contrario, Netanyahu, Livni e Molcho stanno giocando tenendo le carte delle concessioni ben coperte per evitare di pagare un pesante prezzo politico per qualunque eventuale piano di pace che non riuscisse a concretizzarsi. Se alla fine queste mosse riusciranno a portare alla ripresa dei negoziati, Netanyahu dovrà difendere i suoi compromessi alla Knesset davanti alla formazione Likud-Beytenu. Ma per ora questo è un dibattito astratto perché tutto dipende da quanto duttile saprà mostrarsi Abu Mazen.
Se Tzipi Livni condivide questa analisi, il fallimento dei colloqui mediati da Kerry non minaccerà la stabilità del governo. Forse anzi, al contrario, Tzipi Livni potrebbe finire per impersonare il miglior testimone e difensore degli sforzi (vani) fatti da Israele per la pace.

(Da: Israel HaYom, 1.7.13)

Nella foto in alto: il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) con il segretario di stato Usa John Kerry