Quelle condanne automatiche delle costruzioni ebraiche a Gerusalemme

Basta guardare una mappa per capire come mai gli israeliani non vogliono che la città venga di nuovo chiusa in una morsa come prima del ‘67

Di Zalman Shoval

Zalman Shoval, autore di questo articolo

Zalman Shoval, autore di questo articolo

Ogni volta che Israele annuncia un progetto per la costruzione di unità abitative in uno dei quartieri di Gerusalemme al di là della Linea Verde (la ex linea armistiziale che nel periodo 1948-’67 divideva la città fra la parte israeliana e quella sotto occupazione giordana) veniamo inondati, in modo quasi automatico, dalle grida angosciate dei rappresentanti europei ed americani. Uno degli esempi più recenti è la dichiarazione diramata dalla portavoce del Dipartimento di stato Usa Jen Psaki, secondo la quale i piani di costruzione a Gerusalemme non sarebbero coerenti con l’obiettivo dichiarato da Israele della soluzione “a due stati”. Jen Psaki non si è presa la briga di spiegare come possa essere in contrasto con la soluzione a due stati” costruire degli appartamenti o aggiungere dei vani alle case che già esistono in quartieri ebraici di Gerusalemme destinati, nel quadro di qualunque eventuale futuro accordo diplomatico, a restare comunque parte di Israele (stando a quanto concordato dal presidente americano George W. Bush con Ariel Sharon nell’aprile 2004 e a quanto previsto dai “parametri” del presidente americano Bill Clinton del dicembre 2000): a meno che qualcuno non creda che il previsto stato palestinese debba estendersi sulla Gerusalemme ebraica o stringerla su tre lati in una morsa araba (come era prima del ’67).

Prima del ’67 la Gerusalemme israeliana (in azzurro più scuro) era circondata su tre lati dal territorio sotto occupazione giordana. La linea provvisoria d’armistizio spaccava in due la città (clicca per ingrandire)

Queste condanne automatiche non solo sono illogiche e contrarie alle intese già stabilite. Esse non fanno che incoraggiare i palestinesi a mantenere la loro posizione di ostinata intransigenza riguardo a qualsiasi accordo futuro concretamente realizzabile. E alla luce della delicata situazione a Gerusalemme, esse non fanno che fomentare ulteriori violenze sul terreno.

Poco dopo la guerra dei sei giorni del giugno 1967, l’allora ministro della difesa Moshe Dayan (lo stesso che aveva fatto immediatamente togliere la bandiera israeliana dal Monte del Tempio decretando che l’area sarebbe rimasta sotto la gestione del Waqf islamico), individuò un’area disabitata a sud di Gerusalemme dove sarebbe sorto il quartiere di Gilo. Quando qualcuno gli fece notare che quel terreno si trovava al di là della Linea Verde, Dayan guardò per terra e rispose: “Io qui non vedo nessuna linea verde”.

Questo è il punto. Non solo Israele non riconosce come “confine”, in linea di principio e di fatto, la linea che venne tracciata con un spessa matita verde sulla mappa dell’armistizio nel 1949 (e che gli stessi armistizi firmati dalle controparti arabe  negavano che si trattasse di un “confine”). E’ che a partire dal ‘67 Israele ha preso la decisione strategica di non tornare più alla situazione precedente, che metteva i suoi nemici in condizione di stringere d’assedio gli ebrei di Gerusalemme praticamente da ogni lato e addirittura di recidere il loro collegamento con il resto del paese, come era puntualmente accaduto durante la guerra d’indipendenza e come sarebbe potuto facilmente accadere durante la guerra dei sei giorni.

Israele, con i suoi vari governi, ha preso quella decisione e l’ha coerentemente portata avanti. E uno dei mezzi basilari che ha utilizzato e continua a utilizzare per garantirsi questa sicurezza strategica è quello di proteggere Gerusalemme “avvolgendola” con quartieri e comunità ebraiche allo scopo di rompere la continuità araba che la circondava. Arabi e palestinesi capiscono perfettamente questo concetto ed è per questo che si oppongono con tutte le forze alle attività edilizie d’Israele in queste aree: perché costituiscono un baluardo contro chi vorrebbe in futuro poter assediare e strangolare nuovamente la Gerusalemme ebraica.

Gerusalemme dopo il '67

Gerusalemme dopo il ’67 (clicca per ingrandire)

E’ abbastanza strano e sconcertante che, fra tutti, proprio gli americani assumano una posizione che contrasta con le dichiarazioni fatte dai loro stessi presidenti, che hanno sempre riconosciuto le esigenze di sicurezza di Israele. Come ebbe a dire l’ex presidente Bill Clinton, “siamo contro gli insediamenti, ma non siamo contro le costruzioni per motivi di sicurezza”. Cosa significa questa posizione, in pratica dunque? Givat Hamatos si trova a sud di Gerusalemme, adiacente a Ramat Rachel, e non a est: un fatto del tutto evidente a chiunque voglia guardare una mappa, comprese quelle redatte e distribuite dai gruppi e movimenti contrari alle costruzioni israeliane. Abbandonare quella zona significherebbe abbandonare una importante porzione di terreno che si spinge sin nel cuore della Gerusalemme ebraica. Probabilmente proprio ciò che vorrebbero i nemici giurati di Israele. Ramat Shlomo, a Gerusalemme nord, rappresentata una zona cuscinetto strategicamente vitale tra l’insediamento palestinese di Shuafat e i quartieri ebraici di Ramat Eshkol e Sanhedria; ed è stato costruito, detto per inciso, su quella che prima del ‘67 era “terra di nessuno”, e non su un terreno occupato dalla Giordania. Non sono che alcuni esempi, ai quali si possono aggiungere i quartieri di Har Homa, Neve Yaakov, Talpiot Est, Pisgat Ze’ev e Ramot: tutti quartieri di Gerusalemme abitati da ebrei, su terreni che non erano edificati prima del ’67. (Da: Israel HaYom, 11.11.14)