Quello che ho imparato dal boicottaggio accademico anti-israeliano

Due parole vengono in mente quando si legge del boicottaggio di Israele: la prima parola, a voler essere buoni, è ipocrisia

Di Daniel Orenstein

Daniel Orenstein, autore di questo articolo

Daniel Orenstein, autore di questo articolo

Come fa la maggior parte degli accademici nel periodo estivo, di recente ho partecipato a due congressi scientifici dove ho illustrato le mie ricerche e ascoltato le presentazioni dei miei colleghi provenienti da tutto il mondo. A parte il vantaggio dei viaggi, le vacanze estive offrono l’opportunità di ampliare i propri orizzonti e aggiornarsi nei rispettivi campi scientifici. Durante questa particolare estate, ho avuto piacevoli conversazioni con colleghi turchi, cinesi e americani, oltre a molti altri.

Il collega turco, un tipo affabile, mi ha detto che conosceva bene il lavoro di uno dei miei colleghi al Technion di Haifa. Dal canto mio, naturalmente, ha condiviso con lui i meravigliosi ricordi delle mie due visite in Turchia. Con il ricercatore cinese ho parlato della mia speranza di potermi recare in Cina a studiare come le loro città stanno affrontando la crescita della popolazione. Lui, a sua volta, ha espresso interesse a stabilire collaborazioni di ricerca con gli israeliani. In quanto ex cittadino americano, poi, ho avuto lunghe conversazioni con studiosi americani sulla politica degli Stati Uniti.

Quello che non mi è neanche venuto in mente – e forse avrebbe dovuto, se devo applicare la logica del crescente movimento per il boicottaggio degli accademici israeliani – era che, invece di parlare delle nostre ricerche, dovessi considerare il collega turco responsabile per le più scellerate attività del suo paese. La Turchia, dopotutto, continua a negare il genocidio del popolo armeno, continua a opprimere i curdi, continua la sua occupazione illegale di Cipro nord e la sua recente, sistematica eliminazione sotto molteplici aspetti della libertà di espressione e di stampa e dello stato di diritto. Eppure non ne ho considerato responsabile il mio nuovo amico, e non lo farei mai. Se dovessimo diventare amici più stretti, probabilmente mi informerei circa le sue opinioni su queste ed altre questioni controverse, ma non lo riterrei responsabile per le azioni del suo paese né sul piano etico né su quello pratico. E questo nonostante il fatto che, sono certo, paga le tasse al suo paese e la sua università appoggia il regime e le sue ambizioni egemoniche.

Quello che non mi è neanche venuto in mente – ma forse avrebbe dovuto – è che invece di costruire una collaborazione scientifica con il mio collega cinese, avrei dovuto rimproverarlo per gli innumerevoli orrori perpetrati dal suo paese su milioni di persone negli ultimi cento anni, tra cui le spaventose condizioni di lavoro dei cinesi poveri, la repressione delle libertà religiose dei Falun Gong e la repressione delle aspirazioni nazionali degli uiguri e del Tibet. Sarei dovuto andare dritto dagli organizzatori della conferenza a chiedere che tutti i rappresentanti cinesi venissero rimossi fino a quando non avessero esplicitamente riconosciuto e sconfessato pubblicamente le malefatte del loro paese? No. Viceversa, mi sono limitato ad apprezzare l’incontro con lo studioso cinese e ho ascoltato i suoi pensieri e le sue opinioni su una gran varietà di argomenti. Lui non è responsabile delle azioni del suo paese, anche se sono abbastanza certo che la sicurezza del suo posto di lavoro dipende, almeno in parte, dalla sua acquiescenza.

Il Guardian, 27 ottobre 2015

Il Guardian, 27 ottobre 2015

Quello che non mi è neanche venuto in mente – ma forse avrebbe dovuto – è che, anziché intrattenere un’amabile discussione sulla politica degli Stati Uniti con i miei colleghi americani, avrei dovuto chiedere loro con quale diritto gli studiosi statunitensi osano prendere la parola in un forum internazionale. Il loro paese, dopotutto, è colpevole di innumerevoli interventi disonesti che hanno portato guerre prolungate, povertà e miseria in tanti paesi, dal Medio Oriente al Sud America al sud-est asiatico. Gli Stati Uniti, con le sue università d’élite, sono stati costruiti sulle sofferenze e sulla morte di milioni di nativi americani e di neri africani e il loro governo è responsabile dei più alti tassi al mondo di incarcerazione e di divari di reddito. E le università sono complici della continua egemonia americana attraverso la ricerca militare, i programmi di istruzione degli ufficiali della riserva e la formazione della prossima generazione di leader militari ed economici americani che cercheranno di perpetuare la potenza americana a spese del resto del mondo. Non dovremmo ritenere gli studiosi americani responsabili per le attività del loro paese ed escluderli dalle sedi internazionali fino a quando tutti questi torti non saranno raddrizzati? No. Non considero responsabili gli accademici americani, ben sapendo oltretutto che molti di loro hanno dedicato la loro vita personale e professionale a cercare di correggere questi mali, ed essendo convinto che sarebbe contro tutte le norme della cultura accademica discriminarli in questo modo.

Oggi, invece, va crescendo un movimento globale che chiede che gli accademici di un paese (e solo di quel paese) vengano considerati responsabili per le azioni del loro paese: Israele. In termini personali, questo significa che se andrò a un congresso per parlare a un panel in cui sono presenti, tanto per dire, accademici iraniani, turchi, cinesi, inglesi, russi e americani, uno solo di noi sarà chiamato a rispondere delle malefatte (vere o presunte) del suo paese; uno solo di noi vedrà messa in discussione la legittimità del suo paese; uno solo di noi avrà un piccolo, ma crescente, gruppo di nemici dedicati a riscrivere la storia del suo paese, a ostracizzarlo, a dipingerlo di rosso sangue.

Il movimento che persegue il boicottaggio degli accademici israeliani sostiene di avere il ferreo argomento secondo cui Israele sarebbe, nella famiglia delle nazioni, un’anomalia e addirittura un’aberrazione. Stando alla loro versione, Israele è il più malvagio di tutti i paesi e pertanto è l’unico paese che meriti un boicottaggio internazionale. Nella loro narrazione sfumature, contesto, proporzioni, verifica fattuale e complessità vengono cancellati a favore di semplificazioni, cliché dogmatici e, in alcuni ambienti, i più abietti stereotipi. Allo scopo di garantire che il loro modo di descrivere Israele, il sionismo e il conflitto israelo-palestinese perseveri e diventi dominante, essi brandiscono un’arma per mettere a tacere chiunque sia in disaccordo con loro: rimuovere gli israeliani dalla sala, negare loro l’accesso al campus, coprire di insulti i loro oratori, picchettare le loro lezioni, boicottare le loro istituzioni.

Il vecchio antisemitismo: "Gli ebrei sono malvagi, demoniaci e uccidono i bambini". Il nuovo antisemitismo: "Lo stato ebraico è malvagio, demoniaco e uccide i bambini".

Il vecchio antisemitismo: “Gli ebrei sono malvagi, demoniaci e uccidono i bambini”. Il nuovo antisemitismo: “Lo stato ebraico è malvagio, demoniaco e uccide i bambini”.

Ci sono due parole che vengono in mente quando si legge chi sostiene il boicottaggio accademico di Israele. La prima parola, a voler essere buoni, è ipocrisia. Coloro che vogliono ritenere responsabili gli israeliani, e solo gli israeliani, dei crimini veri o immaginari attribuiti al loro paese senza applicare uno standard analogo a nessun altro paese al mondo sono, nel migliore dei casi, degli ipocriti. La seconda parola è meno ottimista: antisemitismo. Vale a dire, prendere di mira lo stato ebraico utilizzando violenza e intimidazione per mettere a tacere i suoi cittadini. E’ una parola che speravo fosse scomparsa dai circoli rispettabili di una società ponderata, riflessiva, equilibrata. Ma questo movimento per il boicottaggio mi ha confermato che questo genere di odio è vivo e vegeto, e dimora nel cuore della torre d’avorio dell’accademia, dalla American Studies Association, all’American Anthropological Association, ai trecento e passa accademici britannici che hanno firmato un’inserzione sul Guardian, a quei due intellettuali ebrei americani che si sono sentiti in dovere di raccontare al mondo con un editoriale sul Washington Post che anche loro, in quanto ebrei, sono per il boicottando. Mentre la maggior parte dei boicottatori fremono per l’eliminazione di Israele, questi due dichiarano di boicottare Israele “per amore” sebbene si rendano conto che uniscono le loro forze a quelle degli odiatori.

C’è una triste ironia in questo loro sforzo, dal punto di vista del sottoscritto. Loro sostengono che soltanto con il boicottaggio gli israeliani apriranno gli occhi sui mali dell’occupazione. Personalmente non ho alcun bisogno che mi vengano a dire che cos’è l’occupazione e che male faccia alle società israeliana e a quella palestinese. E in ogni caso, il mondo accademico israeliano non è uno strumento al servizio della loro agenda politica.

Ciò che mi hanno davvero insegnato i sostenitori del boicottaggio è che uno degli argomenti alla base della creazione di uno stato ebraico – la necessità di un rifugio dall’antisemitismo – non è oggi meno valido di quanto fosse negli anni ‘30. Gli israeliani che si oppongono all’occupazione e promuovono il rispetto reciproco, l’eguaglianza, l’autodeterminazione e la sicurezza sia per gli israeliani che per i palestinesi, devono ora combattere una lotta su due fronti: tra l’incudine dell’occupazione, con tutte le sue implicazioni distruttive, e il martello dell’antisemitismo accademico.

(Da: Times of Israel, 10.11.15)