Rabin, dieci anni dopo

Un unico filo si è dispiegato dalle intuizioni del Rabin martire della pace fino alla dolorosa concessione di Sharon a Gaza? Le cose potrebbero stare in modo diverso.

M. Paganoni per Nes n. 8, anno 17 - ottobre 2005

image_929“Stiamo parlando della culla del popolo ebraico. Tutta la nostra storia è legata a queste terre, ma so che dovremo separarci da alcune di esse. Come ebreo, questo mi angoscia. Ma credo che la necessità razionale di arrivare a un accordo debba prevalere sui miei sentimenti”. Sono parole di Ariel Sharon, nella sua celebre intervista ad Ha’aretz del 13 aprile 2003. Ma avrebbe potuto pronunciarle tali e quali Yitzhak Rabin. Rilette oggi, a dieci anni di distanza dai mortali colpi di pistola che Yigal Amir esplose alla schiena dell’allora primo ministro israeliano, quelle parole sembrano appartenere a un approccio comune, quasi che un unico filo si sia dispiegato dalle innovative intuizioni del Rabin “martire della pace” fino alla “dolorosa concessione” di Gaza, attuata con ferma determinazione dal suo rivale e successore Sharon. Paradossalmente – questa tende ad essere la spontanea lettura degli eventi – il “falco” Sharon mette in atto oggi la politica di compromesso territoriale avviata da Rabin e brutalmente interrotta, dieci anni fa, dal suo assassinio.
Le cose, invece, potrebbero stare in modo diverso. Innanzitutto non è esatto affermare che il criminale gesto di Yigal Amir – per quante profonde ripercussioni abbia avuto (e ne ha avute) – sia riuscito nell’intento dichiarato di bloccare il processo di pace israelo-palestinese inaugurato con la storica stretta di mano Rabin-Arafat (13.9.93). Quella stretta di mano, e la firma della Dichiarazione di Principi, significava riconoscimento reciproco fra Israele e Olp, abbandono di violenza e terrorismo a favore del metodo negoziale, applicazione graduale di accordi provvisori sino alla firma di un compromesso definitivo che ponesse termine al conflitto e a ogni ulteriore pretesa o rivendicazione.
Il processo di pace, inteso in questo senso, non è cessato con la morte di Rabin. Nei mesi immediatamente successivi, il suo vice Shimon Peres impresse anzi un’accelerazione, con il ritiro anticipato delle forze israeliane dalle città palestinesi (dicembre ’95), le prime elezioni generali palestinesi nei territori (20.1.96), la convocazione a Taba dei primi negoziati per lo status finale (maggio ’96). Negli anni seguenti anche Benjamin Netanyahu, benché controvoglia, non si discostò sostanzialmente dallo stesso schema: incontro con Arafat (4.9.96), accordo su Hebron (15.1.97), Memorandum di Wye Plantation (23.10.98).
Il processo venne portato al culmine da Ehud Barak: non solo con il summit di Camp David (luglio 2000), ma soprattutto con la decisione di accettare la mai abbastanza ricordata proposta di compromesso formulata da Bill Clinton nel dicembre di quell’anno. Come non si stanca di ripetere Dennis Ross, per dodici anni inviato speciale della Casa Bianca in Medio Oriente – un uomo che seguì dall’interno tutte le fasi del contenzioso diplomatico – l’offerta del presidente americano fu il vero apice del processo di pace degli anni ’90. “Il governo Barak – scrive – accettò formalmente le idee di Clinton: divisione di Gerusalemme, fine della presenza delle forze israeliane nella valle del Giordano, uno stato palestinese sul 97% della Cisgiordania e sul 100% della striscia di Gaza”.
Fu il rifiuto di Arafat ciò che realmente ne decretò il naufragio. “Il 2 gennaio 2001 – ricorda Dennis Ross – nell’ufficio ovale della Casa Bianca Arafat cercò ancora una volta di fare come aveva fatto tante volte: rifiutare dando l’illusione di accettare. Ma non era più tempo di tatticismi. Clinton aveva messo sul tappeto proposte senza precedenti. Arafat aveva di fronte a sé il migliore accordo che potesse mai ottenere. Eravamo al momento della verità, e Arafat non fu in grado di porre fine al conflitto. Accordi parziali erano per lui sempre possibili, un accordo complessivo no. Poteva convivere con un processo, non con la sua conclusione. I giochi erano finiti. Arafat lo sapeva, ma non seppe accettare uno stato indipendente, territorialmente praticabile, con capitale a Gerusalemme est”.
“Ci andammo vicini?” si domanda il diplomatico americano, e risponde: “Sì. Allora abbiamo fallito a causa degli errori di Barak o di Clinton? No. Entrambi, indipendentemente dai rispettivi errori tattici, erano pronti a fare i conti con la storia e la mitologia. Solo un leader non seppe o non volle farlo: Yasser Arafat” (D. Ross, The Missing Peace, 2004).
La verità dunque è che Rabin venne ucciso da un terrorista israeliano la sera del 4 novembre 1995, ma la visione di pace di Rabin venne uccisa il 2 gennaio 2001 dal mentore dei terroristi palestinesi.
Oggi Sharon non è l’improbabile demiurgo capace di riportare in vita un processo di pace morto cinque anni fa. La sua politica, durante e dopo la spaventosa ondata terroristica che ha investito la società israeliana soprattutto negli anni 2001-2003, può essere compresa solo alla luce di quel fallimento, e delle violenze che ne sono seguite. Tutto il processo perseguito da Rabin, da Peres, dallo stesso Netanyahu fino all’estremo tentativo di Barak, si fondava su un principio: arrivare con i palestinesi a un compromesso (territoriale e funzionale) attraverso il negoziato e la firma di un accordo. Assunto necessario: esiste e abbiamo individuato fra i palestinesi un interlocutore valido, cioè affidabile, in buona fede, che condivida con Israele l’obiettivo ultimo di un compromesso territoriale, e che sia in grado rispettare e far rispettare gli impegni. Sharon muove invece dalla premessa opposta: il rifiuto palestinese e il massiccio ricorso alla violenza, all’istigazione e al terrorismo stanno a significare che non c’è (almeno per ora) interlocutore valido. Messo di fronte alla prospettiva di una conflittualità a lungo termine, Israele deve operare le scelte che meglio servono i suoi interessi vitali (strategici, economici, demografici, diplomatici), anche a costo di farlo unilateralmente. Con Rabin e Barak, Israele cercò invano, fino all’ultimo, il compromesso reciproco, bilaterale. Con Sharon, Israele sceglie di non aspettare all’infinito e decide da sé dove e quando ritirarsi.
Certo, il ritiro completo di tutti i civili e militari israeliani dalla striscia di Gaza rappresenta una misura che necessariamente avrebbe fatto parte dagli assetti di pace prefigurati da Rabin e Barak. Ma i due leader laburisti avevano osato solo immaginarla, rinviandone l’attuazione al momento della firma di un accordo definitivo, al momento cioè della fine del conflitto. Sharon viceversa l’ha concepita, fatta approvare e attuata come misura strategica israeliana nel quadro del conflitto. Che poi la mossa unilaterale possa anche innescare nuove dinamiche sia fra palestinesi sia fra Israele, palestinesi e resto del mondo, è certamente possibile, ed è anzi una conseguenza che viene messa in conto nel bilancio costi/benefici di una politica che vuole essere pragmaticamente al servizio della difesa di Israele.