Ribaltate le speranze di un’intera generazione

Per la prima volta da più di trent’anni Israele deve considerare di nuovo pericolosi tutti i suoi confini.

Di David Horovitz 1/2

image_3055Lo sapevo che prima o poi, in un modo o nell’altro, saremmo stati incolpati, che sarebbe stata attribuita a Israele la responsabilità delle proteste, delle sommosse e dei tentativi di rovesciare poteri dittatoriali un po’ in tutto il mondo arabo. Solo non riuscivo a immaginare quale dei nostri eterni critici sarebbe riuscito nell’impresa, e come.
Dopo tutto, è stato luminosamente evidente che le dimostrazioni – dalla Tunisia allo Yemen, dall’Algeria alla Giordania e soprattutto in Egitto – sono iniziate spontaneamente, con motivazioni costruttive, e che non avevano proprio nulla a che fare con Israele. In realtà, anzi, quelle dimostrazioni hanno messo a nudo l’inconsistenza dell’argomento secondo cui Israele sarebbe alla radice di tutte le tensioni del Medio Oriente, e che tutto in questa regione sarebbe rose e fiori se non fosse per la presenza di Israele. Lungi dall’essere arrabbiati con Israele, quei dimostranti, quantunque sia poco probabile che abbiano recepito il concetto, sono furibondi e frustrati proprio perché i loro paesi non sono come Israele: così privi di libertà, così ostici a una genuina partecipazione pubblica al governo, così carenti di opportunità economiche, così iniqui.
Sebbene negli ultimi giorni si siano visti alcuni segnali di sentimenti anti-israeliani, non se ne era visto nessuno nei primi giorni delle rivolta in Egitto. Inizialmente erano state poche anche le indicazioni di sentimenti anti-americani. Anzi, molti intervistati per le strade sottolineavano che non volevano che tutto questo fosse considerato come una sommossa anti-occidentale. Si trattava invece di una manifestazione di forza della gente diretta contro un presidente ampiamente visto dai suoi concittadini come un tiranno corrotto, un despota risoluto a restare al potere indipendentemente dai sentimenti e dalla volontà popolare.
E tuttavia, come c’era da aspettarsi, il presidente siriano Bashar Assad ha rapidamente trovato un modo per gettare addosso a Israele almeno una parte della colpa per tutto questo caos. In un’intervista lunedì scorso al Wall Street Journal ha spiegato, con la supponente arroganza evidentemente ereditata dal defunto padre, che il suo regime è “stabile” perché è sempre stato attento a restare “molto strettamente legato alle convinzioni del popolo. Questo è il punto centrale. Quando c’è divergenza fra la politica e le convinzioni e gli interessi del popolo, allora c’è questo vuoto che crea disordini”. L’argomento, per quanto presentato con caratteristica incoerenza, sembra essere che, a differenza della gestione illuminata sua e di suo padre, l’ottenebrata dirigenza di paesi come la Giordania e l’Egitto si era allontanata dalle “convinzioni del popolo” nel fare la pace con Israele, ed ora ne sta pagando le conseguenze. “Il popolo non vive solo di interessi – ci insegna quel grande democratico che è Bashar Assad – Vive anche di convinzioni, specialmente in ambiti molto ideologici”.
Assad appartiene a una setta minoritaria, non gode di nessun sostegno pubblico, ha ereditato la presidenza come puro atto di nepotismo (dopo la morte di suo fratello maggiore in un incidente d’auto), reclama il potere sulla base di elezioni presidenziali in cui non ci sono altri candidati, e mantiene il controllo solo perché i suoi oppositori temono che, se osassero sfidarlo, non esiterebbe a ricorrere a uccisioni di massa del tipo di quelle ordinate da sua padre per spegnere l’opposizione islamica a Hamas ventinove anni fa. È particolarmente paradossale sentire un tiranno come Assad affermare che i suoi colleghi autocrati arabi hanno messo a repentaglio i rispettivi regimi per non aver tenuto conto dei sentimenti dei loro popoli. L’ironia sarebbe completa se questo suo compiacimento si rivelasse infondato e gli sforzi coordinati su Facebook di organizzare nei prossimi giorni proteste popolari in Siria si dimostrassero efficaci. Non è così facile, in quest’era di comunicazioni istantanee, mandare il proprio esercito ad aprire il fuoco su decine di migliaia di membri del tuo popolo scesi nelle strade.
Per ora, resta la cupa considerazione su questa realtà vertiginosamente destabilizzata del Medio Oriente in cui, con l’Egitto in fermento continuo, il re di Giordania che ha licenziato il governo fra proteste crescenti, Hamas che governa Gaza ed è pronta a sfruttare il vuoto in Cisgiordania e l’Iran che ora controlla il Libano attraverso Hezbollah, il regime totalmente intollerante di Assad sembra essere il più stabile dei nostri vicini. Per ora.
Dal punto di vista di Israele, la visione più deprimente e preoccupante di questa frantumazione incredibilmente rapida di certezze regionali è che essa inverte lo slancio di un’intera generazione. Dopo aver fatto la pace con l’Egitto nel 1979, credevamo d’aver compiuto il primo e più importante passo verso la costruzione di una cerchia della normalizzazione. Anche se ci sono voluti ben quindici anni per arrivare al secondo passo, la pace con la Giordania nel 1994 aveva confermato la sensazione di un movimento in avanti. Andavano ad aggiungersi a questo impulso i vari livelli di rapporti avviati con paesi arabi come il Marocco e alcuni principati del Golfo. Ci fu anche un fugace momento, durante la “rivoluzione dei cedri” che ha fatto seguito all’assassinio di Rafik Hariri nel 2005, in cui il Libano sembrò pronto per la democratizzazione e per un riorientamento verso l’occidente e magari anche verso Israele. Dopo le pasticciate elezioni del 2009, osammo sperare per un breve momento che la forza del popolo iraniano potesse disarcionare dal potere i mullah. Ci sono stati momenti in cui ci siamo sentiti vicini persino a una svolta sui fronti siriano e palestinese.
Ora, la corrente si è invertita con una specie di rivincita. Per un’intera generazione abbiamo guardato avanti, tormentandoci incessantemente sul se e come stabilire nuove alleanze. Ora, per la prima volta in più di trent’anni, vediamo lo spettro dei nostri traguardi rotolare all’indietro, dei nostri paesi limitrofi che pensavamo di aver convinto loro malgrado e che ora scivolano di nuovo nell’ostilità.
Ora siamo preoccupati all’idea che possa prevalere un processo storico parallelo a quello post-1979: quel processo per cui, mentre stavamo consolidando la pace con l’egiziano Anwar Sadat, vedevamo l’Iran sbandare dall’autocrazia al fondamentalismo islamista dopo la cacciata dello scià; quel processo di rinvigorimento islamico che vide assassinare Sadat per il suo peccato d’aver fatto la pace, l’ascesa di Hamas, lo strangolamento del Libano; quel processo che ha visto la Turchia uscire dall’orbita occidentale; quel processo che la Fratellanza Musulmana cerca ora di portare avanti in Egitto, dirottando le proteste verso un replay dell’Iran di trentadue anni fa; quel processo che giungerebbe al culmine se l’Iran ottenesse la Bomba.
In pratica il cambiamento significa che oggi noi israeliani non ci possiamo già più permettere il lusso di dare per scontato che tutto resterà relativamente tranquillo sui fronti egiziano e giordano. Nel caso dell’Egitto, con una potenziale componente islamista dentro il governo, il vasto e sofisticato arsenale fornito dagli Stati Uniti costituisce un’autentica minaccia strategica. Ma in realtà, ogni confine d’Israele è ora tornato “in gioco” per le nostre sovraccariche forze militari.
Tutte le valutazioni e le previsioni devono essere ora riesaminate e rivalutate, nell’amara consapevolezza che questo cambiamento, potenzialmente sismico, della governance e dell’orientamento regionale non era stato previsto da nessun servizio di intelligence. Le nostre ipotesi strategiche più concrete si sono liquefatte praticamente da un giorno all’altro.
(fine prima parte)

Parte 1/2. Per la seconda parte di questo articolo vedi:
L’incubo di un ritorno al pre-‘67

https://www.israele.net/articolo,3056.htm

(Da: Jerusalem Post, 4.2.11)

Nella foto in alto: David Horovitz, autore di questo articolo

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