Ridere (e riflettere) sui guai dell’immigrazione

Alla Cinematheque di Tel Aviv cineasti provenienti dall’Etiopia si sono mescolati con colleghi dell’ex URSS nel mostrare i loro film a immigrati dal Sud America

Da un articolo di Lily Galili

image_2264Durante un gruppo di discussione su “L’umorismo come mezzo di espressione nell’esperienza dell’immigrazione”, che ha accompagnato una manifestazione di due giorni di film di immigranti alla Cinematheque di Tel Aviv il 9 e 10 settembre, il regista Alex Gentelev ha raccontato questa barzelletta. Rabinovitch (l’ebreo in Russia è sempre Rabinovitch) cattura un pesce rosso. Il pesce, come al solito, promette di realizzare qualunque desiderio in cambio della liberazione. “Sono stufo di essere ebreo – brontola Rabinovitch – Voglio essere russo”. “Facile – risponde il pesce con un sospiro di sollievo – Vai in Israele”.
Tra i film proiettati alla manifestazione “People in Motion – Films about Immigration” c’era il film di Gentelev “Yolki Palki”. Il film, dichiarato il miglior documentario israeliano del 2008, descrive gli sforzi del regista stesso per localizzare quelli che erano stati i suoi compagni di viaggio durante il viaggio verso Israele all’inizio degli anni ’90. Il regista racconta che alcune delle barzellette in russo sono state tradotte con parole arabe, per mancanza di un linguaggio abbastanza crudo in ebraico.
Gli israeliani sono così sottili che, in risposta alla domanda se l’immigrazione sia divertente, Gentelev ha raccontato quest’altra storiella. Prima di emigrare, gli fu detto che, con la sua professione, avrebbe potuto vivere solo a Tel Aviv. Quando arrivò, cercò un agente immobiliare e aspettò pazientemente finché questi gli trovò un appartamento adatto. Gentelev si affrettò ad andare a cercare un amico che parlava russo e lo invitò a fargli visita nella sua nuova casa a Neufed Street. “Non esiste una strada con questo nome”, rispose l’amico. Convinto che il suo amico si sbagliasse, Gentelev scese in strada per cercare altre indicazioni. Là, un passante gli spiegò che in effetti si trovava a Bnai Brak (quartiere abitato da ultraortodossi).
Fa ridere? “L’umorismo nell’immigrazione comincia davvero quando possiamo riderci sopra”, dice Gentelev. Finora i suoi film hanno trattato dell’esperienza russa, ma egli si fa un punto d’onore di mostrarli solo in strutture israeliane.”Non sono venuto in Israele per lavorare per i canali tv russi”, spiega.
È anche ansioso di uscire dal cerchio degli argomenti “russi”. Il suo sogno è fare un film sull’argomento più israeliano che esista: la malavita criminale nel paese. Ze’ev Rosenstein gli aveva già promesso l’esclusiva, dice, ma poi il presunto boss del crimine organizzato stato spedito in carcere.
I film sull’immigrazione non sono una novità, basta pensare a Ephraim Kishon e “Salah Shabati”. Ma questi precedenti spingono Dover Koshashvili, il cui film “Late Wedding” fece arrabbiare la comunità degli immigrati georgiani, ad offrire una definizione diversa di questo genere. “Quando si tratta di ashkenaziti è semplicemente un film – dice sarcastico – Quando invece si tratta di Mizrahim [ebrei di ascendenza mediorientale], allora è un film sull’immigrazione. Gli ashkenaziti non sono immigranti. Sono sempre stati qui. Sono sbucati dal terreno”.
Gli immigrati dalla ex Unione Sovietica hanno cambiato questa realtà cinematografica. L’evento alla Cinematheque, sponsorizzato dall’Israel Joint Distribution Committee, dal Gesher Multicultural Film Fund, dal Ministero per l’assorbimento degli immigrati e dall’Unione Europea, è stato un simpatico avvenimento sulla realtà attuale israeliana. Cineasti provenienti dall’Etiopia – come Shmuel Baro, che sta completando il primo lungometraggio fatto in Israele da un regista etiope – si sono mescolati con cineasti dell’ex URSS nel mostrare la loro produzione a immigrati dal Sud America.
In un film di Jorge Weller, che viene dall’Argentina, durante una lezione di ebraico un immigrato russo cerca, con un pesante accento russo, di correggere l’accento ebraico di un altro studente proveniente dall’ Argentina. L’immigrato argentino è un attore di telenovelas che si prepara per un’audizione per una telenovela israeliana in cui spera di interpretare il ruolo di Shimon, un “fratellastro” del quartiere Katamonim di Gerusalemme. Prima di immigrare, aveva recitato nella telenovela “Fratellastro” in Argentina, e solo il piccolo problema dell’accento deve essere risolto per strapparlo al lavoro in una stazione di servizio.
Nella realtà, queste situazioni appaiono meno leggere: mentre parlavo con Gentelev, una vecchia signora che l’aveva sentito nel gruppo di discussione si è avvicinata. “Devi fare qualcosa per il tuo accento russo” l’ha rimproverato, raccontandogli di sua madre che era immigrata in Israele all’inizio del secolo scorso e aveva perduto l’accento straniero in poche settimane. Gentelev, così rimbrottato, ha educatamente risposto che aveva ragione.
E poi c’è Israele come si riflette in “Yiddishe Mama”, un film di Fima Shlick e Gennady Kuchuk, in cui la madre dello stesso Kuchuk fa uno sforzo supremo per impedire a suo figlio di sposare una donna immigrata dall’Etiopia. “Non stiamo attaccando questa madre in particolare, piuttosto ce la prendiamo con una significativa percentuale della popolazione russa che è molto razzista” dice Shlick, 29 anni, immigrato in Israele quando ne aveva 13. “Questo razzismo non è solo russo, è anche israeliano. È dappertutto. Io sono semplicemente una persona che viene da questa comunità particolare, e quindi ne parlo. Sarei molto contento di esprimere una israelianità radicata nei miei film ma, anche se sono venuto qui da adolescente, il mio punto di vista rimarrà sempre un po’ quello di un outsider”.
Questa distanza è l’argomento del breve film “Weitzman St. No. 10” di Pini Tavger, nato in Israele da genitori immigrati dall’Unione Sovietica. La situazione gli è diventata famigliare per le descrizioni di molti immigrati che arrivarono in Israele durante la guerra del Golfo del 1991, in mezzo a sirene e rifugi. Una miscela sempre molto divertente. Ma il film di Tavger – in cui, appena arrivata in Israele, una famiglia di immigranti si trova in una stanza piena zeppa di stranieri che indossano maschere antigas – non è un film sulla guerra: è un film sulla difficoltà di comunicazione. Qui sta, forse, la differenza principale tra i film “israeliani” e i film degli immigrati: nei film degli immigrati la guerra non è solo sangue, sudore e lacrime, ma anche estraneità e alienazione.

(Da: Ha’aretz, 16.09.08)

Nella foto in alto: Un’inquadratura dal film “Weitzman St. No. 10” di Pini Tavger