Rischio calcolato

Impedire un trasferimento di armi è meglio che doversi poi difendere in uno scontro aperto.

Di Alex Fishman

image_3652Stando alle notizie di stampa, all’alba di mercoledì scorso Israele avrebbe attaccato un convoglio di armi di Hezbollah al confine siro-libanese. Se l’attacco ha avuto luogo davvero, si tratta forse del preludio di uno scontro militare più ampio sul fronte settentrionale? Probabilmente la risposta va cercata innanzitutto nello stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane. Il capo di stato maggiore Benny Gantz, il suo vice Gadi Eizenkot e il capo dell’intelligence militare, Aviv Kochavi, sono fautori delle attività “coperte” nel quadro di quella che nell’esercito viene definita “politica di prevenzione”: la stessa in base alla quale si possono interpretate le notizie relative a un precedente attacco contro un convoglio di armi in Sudan. Se, ad esempio, è possibile impedire il trasferimento di armi dall’Iran distruggendole lungo il tragitto, questo è preferibile rispetto a lanciare un’operazione di terra dopo che le armi sono già arrivate nella striscia di Gaza o in Libano.
In generale questa politica si applica ad ogni attività o preparativo ostile, con l’obiettivo di eliminare le minacce il più lontano possibile, preferibilmente quando sono ancora in fase di preparazione. Il rischio è che l’azione, in uno stato nemico, possa andare storta. E poi c’è il rischio di irritare paesi amici, mettendo in questo modo a repentaglio gli interessi nazionali. Questa politica funziona finché rimane sotto copertura, ed è qui che si trova il suo principale punto debole: non appena l’operazione viene alla luce, o se si vedono le “impronte digitali” degli autori, si induce l’altra parte a reagire. Ed è qui che potrebbe scoppiare una guerra: proprio quella guerra che si voleva prevenire, e il cui prezzo potrebbe non essere giustificato.
Durante l’ultimo anno, il presidente siriano Bashar Assad, man mano che perdeva terreno di fronte alle forze ribelli, ha trasferito grandi quantità di armamenti strategici – come i vari missili Scud e gli agenti per armi chimiche – in aree su cui aveva un controllo migliore. Questi movimenti sono stati motivo di grande preoccupazione fra i servizi di intelligence occidentali, nel timore che tali armi siano sul punto di approdare in Libano. Ma la tensione nell’intelligence e fra i militari ha conosciuto continui alti e bassi, mentre il regime alawita si va a poco a poco sgretolando.
Sempre stando alle notizie di stampa, in passato Israele avrebbe attaccato in Sudan dei convogli e un deposito di armi, e avrebbe distrutto missili a lungo raggio. Ogni tanto vengono colpiti dei convogli di armi in partenza dalla Libia; nel Mar Rosso sono affondate delle navi di contrabbandieri; in Libano sono saltati per aria diversi magazzini di munizioni. Ma finora Israele ha evitato di attaccare direttamente in Libano, sebbene sia a conoscenza del fatto che Hezbollah ha ricevuto partite di missili Scud, missili M-600 a lungo raggio e praticamente ogni altro tipo di missili e razzi in possesso dell’esercito siriano.
Come ogni paese, Israele deve stabilire quando può prendersi il rischio calcolato, contando di non ritrovarsi coinvolto in una vera e propria guerra, e quando è invece meglio tirarsi indietro perché non si vuole correre il rischio di arrivare a un conflitto militare aperto.
Benché Israele non sia interessato a un ampio scontro sul fronte libanese, da almeno un anno, e in particolare negli ultimi mesi, le Forze di Difesa si stanno preparando all’eventualità di un tale conflitto.
(Da: YnetNews, 31.1.13)

ALTRI COMMENTI DALLA STAMPA ISRAELIANA

Secondo un editorialista di Yediot Aharonot, il raid è stato uno “schiaffo” al presidente siriano Bashar al-Assad. L’editoriale ricorda che nel settembre 2007 un bombardamento distrusse nel deserto siriano quello che era con ogni probabilità un impianto nucleare segreto. Bashar al-Assad non l’ha mai ammesso, e Israele non ha mai rivendicato. Oggi la Siria è in pieno caos, e ciò che Israele teme soprattutto è un trasferimento di armi, anche chimiche, agli Hezbollah libanesi.

Su Ha’aretz, un esperto di questioni militari descrive con precisione i “paletti” posti da Israele in questo campo: è fuori discussione permettere il passaggio di missili terra-aria, né missili che potrebbe colpire navi israeliane o missili terra-terra a lunga gittata. Quanto a un trasferimento di armi chimiche, l’editoriale ritiene si tratti di un “tabù” assoluto che Assad non infrangerà tanto facilmente.

Ma’ariv ricorda che “gli attacchi in Siria non sono una novità” e ipotizza che, qualunque cosa sia accaduta questa volta, “non porterà immediatamente a un round di combattimenti nel nord” perché, fra l’altro, “l’arsenale di armi di Hezbollah è stato costruito, in primo luogo, in vista del giorno in cui vi dovesse essere uno scontro tra Israele e l’Iran, e non come risposta ad un attacco a un convoglio di armi, per quanto importante possa essere”.

Secondo il quotidiano Israel HaYom, “la palla è ora nell’altro campo”. Cioè: Damasco e Beirut devono decidere cosa fare. Da un lato, Assad può essere tentato di reagire perché, nella sua attuale situazione, ciò migliorerebbe la sua immagine: uno scontro con Israele è una ricetta sicura per accrescere la propria popolarità in tutto il mondo musulmano. Assad avrebbe bisogno di un grande exploit per far dimenticare i 60.000 siriani morti e i 700.000 siriani profughi che ha causato. D’altra parte, l’intero esercito siriano è occupato a combattere i ribelli. E poi, una reazione militare siriana porterebbe a un’ulteriore risposta israeliana, e questa è l’ultima cosa di cui il regime siriano ha bisogno in questo momento.

(Da: Yediot Aharonot, Ha’aretz, Ma’ariv, Israel HaYom, 31.1.13)

Immagine in alto: foto d’archivio