Ritorno al kibbutz

Dopo anni di vita competitiva in città, tornano al kibbutz e lo trovano molto cambiato

Da un articolo di Avirama Golan

image_1705Non è solo il primo ministro e sua moglie che trascorrono la Pasqua in un kibbutz del nord, né solo il turismo che cresce nei kibbutz. Il dipartimento per la crescita demografica dei kibbutz è occupatissimo a scegliere e accettare nuovi aspiranti. Nel 2001, 229 tra famiglie e individui singoli sono diventati membri di kibbutz. Nel 2004 il numero è salito a 900, e la tendenza continua.
La maggioranza dei nuovi membri sono figli dei kibbutz che sono partiti, hanno studiato, lavorato e vissuto per anni in città e ora vogliono ritornare. Improvvisamente si sono resi conto che la promessa della città come il luogo in cui si aprono tutte le possibilità è ingannevole. Le opportunità ci sono solo per un sottile strato di gente di successo, chiusa in gabbie dorate di dipendenza dal denaro e dal lavoro. Le cose che avevano date per scontate nel kibbutz – ottima istruzione in piccole classi, vita in mezzo alla natura, un’atmosfera di sicurezza e calore – in città hanno un costo altissimo. I prezzi delle case sono astronomici. Per tutta la loro vita adulta hanno dovuto lavorare duramente per pagare per una qualità di vita che non è migliore di quella di cui godono oggi i veterani dei kibbutz. Sfiniti dalla competizione selvaggia che è priva di sicurezza sociale ed esistenziale, ora ricordano il ritmo di vita rilassato della loro infanzia, e il ricordo diventa più acuto man mano che invecchiano. Finché erano molto giovani e non avevano figli, pensavano di avere il mondo ai loro piedi. Ora che riescono a stento a trascorrere un po’ di tempo con i figli, cominciano a rimpiangere quella vita comunitaria che prima sembrava soffocante e limitativa.
Ora non gli è difficile prendere in considerazione l’idea di ritornare, perché il kibbutz sta subendo un enorme cambiamento. Cinquanta percento dei kibbutz sono stati completamente privatizzati e gli stipendi pagati sono differenziati. Molte sale da pranzo collettive sono state chiuse e in altre alcuni dei pasti sono forniti da compagnie di catering . Molti membri lavorano fuori dal kibbutz, e quelli che ritornano sarebbero accolti con gioia, con i loro stipendi da lavoro esterno. Gli addetti ai bovini, al pollaio e tutti quelli che indossano sbiadite tute blu da lavoro ci sono ancora, ma ora hanno uno stipendio. Anche un regista o uno scultore possono rappresentare un profitto per l’economia.
Il nuovo kibbutz non è un posto ideale, ma ha detto addio alla favola di rigida uguaglianza che aveva creato molte distorsioni e ora offre un modello interessante per la vita comunitaria, in cui si possono trovare sia sicurezza che stimolo sociale. I kibbutz che accolgono nuovi membri dichiarano in modo esplicito la piena privatizzazione e gli stipendi differenziati, accanto alla “mutua responsabilità per istruzione, salute e assistenza”. A tutti questi, naturalmente, interessano i giovani con bambini piccoli. I kibbutz che godono di una rinnovata prosperità economica attirano più nuovi membri di quanti siano in grado di assorbire.
Rimangono però molti problemi. La decisione della Israel Lands Administration, per esempio, che renderà possibile l’espansione delle costruzioni nei kibbutz (una decisione di pianificazione nazionale sbagliata di per sé) attirerà attorno ai kibbutz molti abitanti che non sono membri. In questo modo si creeranno due gruppi diversi che avranno differenti livelli economici e diversi livelli di responsabilità verso la proprietà comune. È possibile che la soluzione si trovi nella costituzione di una cooperativa. Nello stesso tempo, il ritardo nella registrazione delle case come beni che possono essere trasmessi ereditariamente e l’assenza di un sistema pensionistico vero e proprio si librano ancora come una nuvola nera sulla testa dei veterani del kibbutz. È un peccato che i politici dei kibbutz alla promessa di vantaggi sociali universali preferiscano realizzare il valore della proprietà immobiliare.
Un altro problema che è sorto dalla privatizzazione è quello della distruzione della comunità. Ci sono kibbutz in cui questo processo è già andato oltre ogni possibilità di ripristino; ma altri, che sono passati dalla collettività totale alla diversificazione, stanno ora annaspando alla ricerca di un modo per riparare i danni. Se lo trovano, è possibile che riescano a ripristinare qualcosa del loro ruolo tradizionale come leader culturali e sociali. Il patrimonio del kibbutz nell’istruzione e nella creatività culturale è nelle loro mani. Se sono in grado di infondergli nuova vita e trasformarlo in ambienti più ampi, l’istituzione stessa del kibbutz, e non solo quelli che lo hanno lasciato, torneranno per costruire un futuro degno dei suoi inizi.

(Da: Ha’aretz, 18.04.07)