Ruvik Rosenthal

image_1219Ruvik Rosenthal è nato a Tel Aviv nel 1945. Opinionista del quotidiano Maariv e direttore della rivista Panim, è considerato il maggiore esperto israeliano di linguaggio e media. Nel 2004 ha vinto il prestigioso premio giornalistico Sokolov. Questo è il suo primo libro pubblicato in Italia.

BLUMENSTRAßE 22
Berlino, maggio 1933. I nazisti devastano la casa editrice di Erich Freyer e ne bruciano i libri sulla pubblica piazza. Erich abbandona Berlino e in fuga dal nazismo approda in Israele. La moglie cristiana e la figlia restano in Germania. Poi sarà la guerra. Ma è la cortina di ferro che li separerà definitivamente con il muro invalicabile dell’ideologia. Perché questo romanzo, in cui si muovono personaggi che – profughi dall’Europa – arrivano in Israele con il solo bagaglio della speranza comunista, non è solo la storia travagliata di vite squassate dagli eventi, ma è la rappresentazione dolorosa delle delusioni degli israeliani comunisti messi di fronte al rifiuto dell’esperienza sionista da parte dei governi comunisti.

IL BRANO letto al Convegno dell’Università di Milano
Il gruppo dei comunisti ebrei non si sciolse benché lo Stato fosse stato fondato e l’odiato Ben Gurion, che molti anni prima si era adoperato per cacciare il partito comunista dalla Histadrut, fosse il capo del governo. Il 7 novembre 1949 il gruppo si riunì nella baracca di Hans e Lotte per feteggiare il 32° anniversario della Rivoluzione e il quarto compleanno del piccolo Rubi. C’erano Shmuel Ettinger, che sarebbe diventato un noto professore di storia, Chayyim Gissis, un grande studioso, Assia e Dutzi Tzur, amici molto cari di Hans e Lotte, Eli e Rega Loewy e Wal-ter Grab, padrone di un negozietto di borse in via Allenby, che conosceva a memoria interi libri di storia, e dopo essere stato casualmente scoperto dal professor Zvi Yavez divenne uno studioso di storia tedesca di fama mondiale.
Gli invitati arrivarono alla baracca a piedi, dopo aver camminato per le strade di Tel Aviv, che non era più tanto piccola ma ancora silenziosa, perché di macchine quasi non ne passavano. A notte fonda nella nostra baracca si sentiva lo zampillo d’acqua della fontana di piazza Tzina Dizengoff, nel cuore della città, e il vento del mare che soffiava direttamente dal quartiere di Machlul e dal cimitero arabo, vicini alla spiaggia. La casa si riempì, come sempre, di voci e di chiacchiere e io, che non ero più un poppante dai capelli d’oro ma un bimbo magro e scuro, fui festeggiato adeguatamente prima di sprofondare in un sonno innocente.
Hans chiese la parola. Il suo unico libro di poesie era stato pubblicato cinque anni prima. Da allora aveva fatto qualche lavoro come giornalista, scrivendo saltuariamente per uno sconosciuto giornale austriaco, e aveva pubblicato dei racconti sulla vita di un disoccupato in Terra d’Israele sulla rivista del partito. Quel giorno, spiegò Hans, desiderava leggere alcune poesie scritte nel 1943, che non aveva mai mostrato a nessuno, tranne una, che aveva letto a Emil del partito comunista; erano i giorni della grande scissione, e lui aveva la sensazione che i tempi non fossero maturi.
Hans tirò fuori da un cassetto del comò un fascio di fogli sgualciti e lesse lentamente, riga dopo riga, un ampio, intero, ciclo di poesie: i sonetti ebraici di Hans Rosenthal.
«Sono ebreo, figlio di ebrei/ ma questa parola non mi diceva nulla/ ho respinto la Bibbia e la voce di Dio/ la Germania mi era più che sufficiente// ma con l’arrivo di Hitler il mio mondo è andato in pezzi/ essere ebreo è diventato un destino col quale ho dovuto convivere/ dal frutto del mio popolo ho eliminato la scorza/ ho ricavato un nocciolo di verità// allora ho capito che con parole false e orgogliose/ nazionalisti, preti e predoni/ predicano ferocia e odio contro gli ebrei// oggi sono orgoglioso di dire: sono ebreo/ il mio ebraismo non è più una costrizione/ in nome suo dichiaro guerra alle forze del male».
Cadde il silenzio. La mamma era sbalordita. Hans guardò gli amici, mesto: forse i tempi non erano ancora maturi, forse non l’avevano capito. Continuò a leggere, e lo stupore cresceva. Una poesia su Heinrich Heine, anche lui, come Hans, un ebreo che aveva buttato la scorza per tornare all’essenza, e un’altra su Baruch Spinoza, che aveva rifiutato di lasciare il monopolio della spiritualità e della verità ai sacerdoti e alle sacre scritture. Lesse poi un componimento sul sacrificio di Isacco, le cui vere vittime erano state Hagar e Ismaele, uno sui Maccabei e un altro sugli eroi di Betar, e su Vilna e Varsavia, da cui arrivavano, proprio mentre scriveva le poesie, le prime notizie sugli orrori della Shoà. E poi c’era la poesia sulle mura del ghetto.
«È una poesia un po’ lunga,» esitò Hans «non so se avrete la pazienza…», ma attorno a lui vide sguardi interessati, carichi di aspettativa.
«Intorno a noi hanno elevato le mura dei ghetti/ ci hanno tagliato fuori dal mondo/ e a ogni porta hanno messo un soldato/ perché non cercassimo di fuggire un secondo// ma dentro le mura siamo cresciuti e sbocciati/ uscire è vietato ma non ci siamo lamentati/ le mura di pietra son diventate/ bastioni delle idee che abbiamo inventato».
«Le hai scritte sei anni fa» commentò Chayyim dopo che Hans ebbe terminato la lettura «e sei sempre della stessa idea?».
«Non dovrei?» si stupì Hans.
«Sono poesie un po’ nazionaliste,» intervenne Eli «quasi religiose. Io credevo che tu fossi distante da tutto questo. Forse più di noi altri».
Hans arrossì e si chiuse in se stesso. Walter aggiunse: «Non è una critica, Hans, la poesia ci porta nelle direzioni più inaspettate», ma Hans scosse la testa dicendo: «No, no, non è così, è tutta un’altra cosa. Io detestavo l’ebraismo e tutto quello che lo concerneva, ma quando il partito si è sciolto mi sono reso conto che avevo cercato la strada più semplice; non avendo mai eliminato quella scorza di repulsione, ce l’avevo bloccata in gola, e mi era impossibile sia ingoiarla sia vomitarla».
Rimasero tutti in silenzio. La conversazione languiva, poi Hans improvvisamente raccontò, con grande stupore di mia madre: «Mio padre era un funzionario subalterno della comunità ebraica di Stettino, non so nemmeno quale fosse precisamente il suo compito, niente più che un umile servitore del rabbino della comunità, Haymann Vogelstein; era anche un chazzàn con una voce da usignolo, al quale permettevano di salire sul podio e cantare solo quando il cantore ufficiale aveva la gentilezza di ammalarsi; e lui ringraziava per quelle briciole. In casa se ne stava a guardare la mamma come un bambino innamorato, mentre lei cucinava il suo cibo kashèr e unto che io non potevo soffrire; quando ho cominciato a portare a casa libri diversi dai testi sacri, ha fatto un mucchio di smorfie. Non avevamo niente da dirci. Il suo mondo era pregno del calore e del sudore della sinagoga durante la preghiera, degli intrighi che coinvolgevano la comunità. Odiavo quella casa, quella strada. Ho odiato tutta la mia infanzia, senza capire il perché».
Qualcuno del gruppo annuì. Forse la sua storia era simile alla loro. La mamma lo guardava con occhi innamorati, comprensivi.
«Quando ho incontrato i compagni comunisti a Berlino» continuò Hans «è stato come librarmi in volo, è stata la felicità, la redenzione. Le mura erano cadute, non c’erano più nazioni, non c’erano più un Dio mio e un Dio tuo, non più pochi ricchi intorno ai quali tutti ronzano chiedendo la carità, vicino a cui aspirano a sedersi in sinagoga. Sapete, io avrei voluto vivere nella Russia sovietica, far parte del mondo della rivoluzione, quel mondo senza barriere e senza subalterni, ma loro non mi hanno voluto».
Eli Preminger guardò Hans con un sorriso saggio, e chiese: «Insomma, cos’è successo quando il partito si è sciolto, eh, Hans?».
«Non so bene come spiegarmi» disse Hans. Il gruppo lo osservava. Lui cercava le parole mentre la mamma lo fissava, col viso più luminoso che mai.
«Per la prima volta,» disse Hans «per la prima volta ho affrontato la mia repulsione, invece di sfuggirla. Volevo andare oltre il guscio, parlare proprio di quello. E stato difficile. Durissimo. Per me dire in una poesia “sono ebreo” e non “sono un uomo” o “lavoro in un frutteto” era come scavare un tunnel dentro una montagna. Mi tremava la mano. Ho iniziato a scrivere venti volte, e ogni volta cancellavo e ricominciavo».
Ormai Hans si sentiva sicuro, le parole fluivano facilmente. «Quando ho finito di scrivere i sonetti ero felice. Finalmente tutto era chiaro. Non si può scappare da se stessi, un ebreo non può fuggire dall’ebraismo, altrimenti ne sarà perseguitato, esattamente come un tedesco non può sfuggire al fatto di essere tedesco, perché è nella sua pelle, nella sua carne».
Walter guardò Hans sorridendo, e disse: «Non è così semplice, Hans». Hans aspettava una spiegazione, e Walter aggiunse: «Il problema, caro Hans, è che impossibile separare l’ebreo dal tedesco, questo è il cuore del problema».
«Quello che dici è sorprendente» disse Hans. «A questo proposito vorrei raccontarvi una cosa che non ho mai detto a nessuno, successa nel periodo in cui stavo a Kfar Saba, lo stesso in cui ho scritto i sonetti. A quei tempi mi piaceva andare a passeggio nei frutteti la sera, dopo il tramonto. Un giorno, forse per via del freddo che mi aveva ricordato l’aria frizzante di Berlino alla fine dell’estate, o forse per gli alberi che mi sono improvvisamente sembrati quelli dei boschi vicino a Stettino, dove tanto amavo rifugiarmi da ragazzo, fatto sta che d’un tratto sono stato assalito da una tremenda nostalgia. Allora sono andato a sedermi in un caffè e ho scritto una poesia che non ho mai letto a nessuno; me ne vergognavo. Ce l’ho qui. Adesso ve la leggo; vi prego, non vi arrabbiate».
Gli amici guardavano Hans con un misto di affetto e interesse. Lui tirò fuori da un piccolo armadio in cortile un foglietto piegato. La mamma scoppiò a ridere e disse: «Sei riuscito a tenermelo nascosto, eh, razza di un birbante. Hai anche degli altri segreti?». Tutti si unirono alla sua risata ma, vedendo lo sguardo turbato di Hans, tacquero. Poi lui lesse con voce limpida.
«Potrò mai rivedere la Germania/ terra mia, tanto amata/ veleggerò sulla nave dei miei sogni/ e un popolo libero mi accoglierà/ l’armata rossa la colpisce adesso/ il giorno sta arrivando/ la meta si avvicina/ un messaggio di libertà si muove verso la mia terra/ mentre la nostalgia cresce// quando la Germania sarà libera/ finirà anche il mio esilio in terra straniera/ e il sangue dei miei fratelli assassinati sulla mia terra/ non mi separerà più dal paese che amo».
Nella baracca cadde il silenzio. Preminger annuì. «La tua fortuna» commentò «è che per due volte non hai seguito il tuo cuore. Ti avrebbero fatto fuori». Tutti lo guardarono stupiti, e lui disse con voce rotta, sicura e spaventata insieme. «Sai bene cos’hanno fatto i tedeschi agli ebrei e all’umanità intera, ma adesso io so anche cos’hanno fatto i comunisti in Unione Sovietica. Non credere che ci sia una grande differenza».
Alcuni dei presenti, fra i quali Hans, fissarono Preminger con sguardi di rimprovero.
«Ci hanno ingannato» proseguì Preminger. «Dei malvagi si sono impadroniti della nostra rivoluzione. Hanno ammazzato milioni, decine di milioni di persone innocenti. Per tutti questi anni, e ancora oggi, hanno perseguitato gli ebrei, gli intellettuali. Il KGB controlla il paese, e tu, Hans, non saresti sopravvissuto neanche un mese».
«Ma di cosa stai parlando» lo interruppe Yitzchak, tremante di rabbia. «È tutta propaganda, tu non hai visto niente di persona».
«Ne sono sicuro. L’ho sentito raccontare tante volte, e non ci volevo credere. Ma adesso lo so con certezza, e la verità uscirà allo scoperto, perché non si può tenerla nascosta».
Preminger tacque. Nessuno degli amici seduti nella piccola baracca di via Pinsker gli rispose, ma un orecchio sensibile avrebbe potuto udire il silenzioso sospiro di sollievo che si levava. Una fede profonda può dare forza a chi è stanco, alleggerirlo fino a fargli spiccare il volo, ma fra i comunisti ebrei la fede da un po’ di tempo si era infiacchita, le pezze con le quali l’avevano rattoppata si stavano disfacendo e ora, con quel grande silenzio, si liberavano del suo peso. L’unico rumore era il pianto del piccolo Rubi di quattro anni, il bimbo della rivoluzione, nato il giorno del suo anniversario, svegliato dal silenzio che riempiva la stanza. Sentendolo piangere, gli amici scoppiarono in una risata sonora, dirompente, che attraversò le pareti della piccola baracca di via Pinsker, spazzò via Bograshov, superò mari e laghi e, così riferiscono le voci, raggiunse le spesse mura del Cremlino.
Gli amici si dispersero e Lotte chiese: «Hans, come mai non mi hai parlato di quei sonetti?». Lui rispose: «Mi vergognavo un pochino; cosa te ne pare?», e Lotte commentò: «Non lo so, forse ti sei spinto troppo oltre, ma io lo accetto».
«Oggi non lo scriverei» affermò Hans. «Allora mi sembrava più giusto». Lotte aggiunse: «È da molto che non ti dedichi più alla poesia».
Hans la guardò, le strinse la mano e sussurrò: «Le poesie nascono dalla tempesta, Lotte, dalla paura; e da quando noi due siamo insieme e ci sono Rubi e gli amici, tutto si è sistemato, forse persino troppo; a volte temo che il mio compito sia finito, di non avere più niente da dire».
«Il tuo compito è appena iniziato» gli disse Lotte, e in risposta al suo sguardo stupito si posò una mano sul ventre e spiegò: «L’estate prossima Rubi avrà un fratellino o una sorellina, tu cosa preferiresti?».
Si abbracciarono come due ragazzini. Hans rideva e piangeva, riconoscendo: «Abbiamo una bella vita, Lotte, una vita bellissima».

IL COMMENTO di Ruvik Rosenthal
Hans Rosenthal, l’uomo di cui tratta il testo che avete appena ascoltato, era mio padre. È scomparso alcuni giorni dopo l’evento descritto nel brano. A ventitre anni il mio fratello minore, il piccolo Gideon, è rimasto ucciso nella guerra del Kippur. “Blumenstrasse 22”, come gran parte della mia produzione, è nato con la morte di mio fratello Gidi nella guerra del Kippur, ma è stato scritto trent’anni dopo, nel 2003. Due perdite che sono la mappa della mia vita. È una mappa mitologica: la morte del padre, la nascita del principe ereditario, che mi abbandona ai bordi della strada. Siamo rimasti in due, mia madre e io; abbiamo avuto trent’anni per chiarire l’uno con l’altra quale fosse il senso di tutto questo, ma non siamo riusciti a farlo insieme.
Con gli anni ho imparato che la perdita è una stazione di passaggio, non solo nella mia vita di individuo, ma anche nella mia vita di ebreo, e di persona che fa parte della storia dell’umanità. Sono cresciuto tra uomini, gruppi, sistemi educativi che riflettevano la fede laica in ogni suo strato. Io e i membri della mia generazione siamo capitati in una specie di tunnel di passaggio storico, in cui le fedi iniziavano a sgretolarsi e le domande nuove a prendere forma. La morte di Gidi sospinse alla mia porta la domanda senza che io abbia mai potuto eluderla. La disgrazia mia e di mia madre, la tragedia di Gidi, non poterono essere ricondotte verso nessun sistema di risposte.
Non ho potuto trovare un senso da un punto vista privato. Né da un punto di vista nazionale. La guerra di Kippur non ha trovato la sua conciliazione nel motivo nazionale della “guerra per la casa” e del “prezzo da pagare”. La Guerra del Kippur ci ha uniti, lo Stato, la società israeliana, i membri della mia generazione e di quella dei nostri fratelli maggiori, in un luogo da cui avremmo desiderato fuggire: il destino ebraico. Gidi, così israeliano e malgrado ciò intimamente legato alla cultura europea, è divenuto a ‘Emeq ha-baqa, nel Golan, disteso solo tra i rottami dei carri armati e le nere pietre di basalto, la vittima del destino ebraico, figlio dell’umanità del XXI secolo, che ha chiesto centinaia di milioni di vittime e ancora non si è saziato.
Così l’enigma della morte di Gidi mi ha condotto verso la mia famiglia ebraica tedesca, fregio e musica della mia vita. I membri della generazione di mio nonno erano uomini di bassa statura, ma di grande levatura morale, allontanatisi anch’essi dallo stereotipo dell’ebreo-vittima. Nella loro storia si celava il legame all’interno del quale forse si trovavano delle risposte. Essi non erano sopravvissuti alla Shoah nel senso comune dell’espressione, uomini che provarono l’inferno e il cui passato fu bruciato con le città e con i ghetti. Furono sradicati dalle loro città e dalle loro case in Germania, ma rimasero cittadini della cultura tedesca. Parlavano tedesco, leggevano in tedesco, scrivevano in tedesco e pensavano in tedesco.
Ciononostante erano, a modo loro, volti diversi del destino ebraico; la chiave di tutto era il biglietto divenuto in seguito un mito nella mia famiglia, quello che Hilde Freyer, la moglie cristiana dello zio di mia madre, Erich Freyer, lasciò in un giorno di primavera del 1934, in un sobborgo di Amsterdam: “Non abbiamo più nulla da fare insieme. Tu te ne andrai nella tua Palestina, noi torniamo in Germania”. Noi: Hilde e Yvonne, la loro unica figlia. Forse questa dura separazione, priva di saluti, si sarebbe verificata anche in Germania, ma nel 1934, un anno dopo che i libri della casa editrice della coppia erano stati bruciati durante il rogo del 10 maggio 1933, anche questo biglietto separatore di destini ottenne un legame e un’interpretazione storica. Da questo biglietto risuona la tragedia della vittima che Erich portò per tutti i suoi giorni, insieme al sogno di tornare a riunirsi alla sua famiglia. La storia di Erich è il cardine di “Blumenstrasse 22”.
I membri della generazione di Erich, lui, suo fratello e le sue due sorelle, disegnano anch’essi una mappa: la mappa ebreo-tedesca. Il fratello di Erich, mio nonno Kurt Freyer, è l’ebreo che vive nella sfera intellettuale, nel mondo delle idee. Kurt è l’ebreo che insegue le idee, che passa come una farfalla dall’amore per il sionismo al socialismo, da qui al nazionalismo tedesco, divampato precedentemente la prima guerra mondiale, quindi a Spinoza e al marxismo. La sorella maggiore di Erich e Kurt, Trude, si sposò con un medico ebreo e non ebbe figli. Trude e Martin vissero e morirono nello stesso angolo che la nostra famiglia, così come me, aveva scelto di dimenticare: la Shoah. L’amore fanatico di Martin per Richard Wagner era, per me, la chiave di ulteriore volto dell’identità ebreo-tedesca, quello che rifiutò di comprendere e ascoltare. La sorella minore, Kate, optò per il sionismo e giunse in Israele per scelta. Nel destino degli eredi presero corpo l’eroismo e il dolore dell’idea sionista e della sua attuazione. La figlia, Rachel, fondò con i suoi compagni un kibbutz sulle sponde del mar Morto, ma fu costretta ad abbandonarlo. Suo nipote Yonatan tornò a Ha-baqa, fu uno dei primi del kibbutz Galgal e rimase ucciso in un incidente stradale lungo la strada tra Gerusalemme e Gerico.
Yvonne, la figlia di Erich, servì come operaia nell’esercito tedesco; là concepì e partorì la sua unica figlia, Martina, a un pilota che in seguito scomparve nei campi di battaglia. Si rifugiò nel comunismo, verso il luogo in cui, credeva, non ci sarebbero state nazioni, non ci sarebbero stati ebrei né non-ebrei, e scalò la gerarchia del giornalismo rosso tedesco. Mio padre Hans, poeta comunista, non aveva mai desiderato recarsi in Palestina, ma vi andò forzatamente, seguendo la sua prima moglie. Non so quasi nulla di lui, della sua vita e della sua opera poetica. Quando andai a fare ricerche su di lui, per riportarlo di nuovo in vita, scoprii che si era occupato del destino ebraico in raccolte di poesie scritte in tedesco, mentre tentava di legare il suo ebraismo alle idee e all’esistenza europee, accettando e nello stesso tempo rifiutando il suo ebraismo.
Dagli ebrei tedeschi tornai al cerchio dell’intimo, alla mia piccola famiglia prosciugata. In Gidi c’era tutto questo, l’amore per l’Europa, l’amore per il suo essere israeliano, l’attaccamento alla vita caratteristico di ogni membro della nostra famiglia. Tra tutti noi egli trovò una via che lo congiungeva al nonno Kurt; nell’anno in cui se ne andarono entrambi, il 1973, fu trovato un pacco di lettere in cui trattavano del destino del mondo, il nonno con ottimismo, Gidi con un pessimismo che annunciava il postmodernismo, mentre guardava e sentiva come il XX secolo si chiudeva su di lui e sulla sua vita. Ho chiuso il cerchio dell’intimo andando sulle tracce di Gidi, nei campi di basalto nero, negli ultimi minuti della sua vita, nei secondi in cui proiettili siriani dilaniarono il suo corpo, nelle settimane e nei mesi in cui rimase gettato là. Poi ho scoperto il racconto della sua morte, descritto con amara precisione nelle poesie che aveva tradotto, soprattutto in quelle di Bertold Brecht.
Nel novembre 1989 mi trovai per caso a Berlino nella settimana in cui cadde il muro. Vi camminai accanto; di fronte a me gli uomini del mondo nuovo occhieggiavano a quelli del mondo vecchio e stavano in fila per ricevere un piatto di minestra e cento marchi. Feci visita a Yvonne e a suo marito, dei comunisti fedeli, ebrei che non vivevano e non si sentivano ebrei; il loro mondo era distrutto e io davvero sentii che forse l’enigma era stato risolto e in una maniera assolutamente inquietante: tutto era inutile, la vittima era inutile, le mura cadute in quel momento avrebbero ricondotto tutti noi, profughi del XX secolo, a un genere umano sano e saggio. Gli anni successivi hanno dimostrato che non era così, ma questa è un’altra storia.
Ho scelto di scrivere questo libro come un romanzo costruito con elementi reali, uomini che furono e avvenimenti che furono. La fonte di tutto questo è la condizione umana e il timore reverenziale verso la trama che costruisce il caos da noi chiamato “realtà”. Sento che tutto ciò che dobbiamo fare è decifrare le leggi che muovono questo caos e tentare di comprenderlo. Ho garantito una vita al mio defunto padre, ho trovato una motivazione alla vita del solitario Erich Freyer, ho piantato Gidi nel cuore del destino ebraico e ho costruito per lui un monumento secondo il desiderio di entrambi. In tutto questo non c’è conforto, ma il conforto è una cosa per i folli e gli ignoranti. Anche questo ho imparato dalla mia famiglia ebraica tedesca: sebbene talvolta spirassero al suo interno illusioni per l’avvenire, per il loro presente essi riservarono sempre uno sguardo onesto e determinato e seppero fare la cosa giusta.

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