Salam, donne di Germania; addio, menzogna

A proposito di Un buon posto per la notte, di Savyon Liebrecht

di Claudia Rosenzweig

image_976Liebrecht, Savyon, “Un buon posto per la notte”, trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Ed. e/o, Roma 2005, pp. 296, 16 €.

Savyon Liebrecht è una scrittrice ormai nota in Italia: diversi suoi racconti e un romanzo sono stati tradotti in italiano (Prove d’amore, Mele dal deserto, Donne da un catalogo, tutti pubblicati da e/o).
Un buon posto per la notte è una raccolta di racconti, ognuno dei quali prende nome da un luogo: America, Kibbutz, Hiroshima, Tel Aviv, Monaco, Gerusalemme, e Un buon posto per la notte. La maggior parte hanno un tema in comune: il rapporto tra menzogna e verità nella costruzione della vita dei personaggi, la menzogna come protezione, ma anche come lotta vana, e il ritorno violento, pieno di passioni dure, al passato, per rileggere la propria storia personale in modo radicalmente diverso. È la storia del rapporto con la madre nel primo racconto, America, la cui voce narrante è quella di una bambina, che dalle prime battute indica al lettore la strada: «Questa è la mia verità, e per il momento è l’unica» [p. 5]. La madre abbandona lei e il marito per seguire in America un uomo di cui si è innamorata, che a sua volta lascia la propria moglie e porta con sé la figlia. A questa figlia la protagonista rivolge la sua confessione, a questa bambina che immagina scelta ed allevata dalla madre, e che incontra molti anni dopo, per una conversazione che ribalterà «la sua verità».
Sulla menzogna è costruito anche il tenero rapporto di una donna che vive in un kibbutz e di un giovane ragazzo che lei ha cresciuto tentando di tenerlo lontano dalle crudeltà di una società dura, disumana, spietata.
Sulla ricerca della verità è imperniato il racconto Tel Aviv, nel quale una donna scopre l’omosessualità del marito.
Un altro tema presente in questo come nella maggior parte dell’opera della Liebrecht è quello della Shoà. È così nel racconto Hiroshima, dove il confronto tra la tragedia giapponese e quella del popolo ebraico durante la II Guerra Mondiale è ciò che porta Idit, una giovane israeliana, a stabilirsi nella città giapponese, a vivere in modo traumatico il problema dei sopravvissuti, e a intrecciare una storia sentimentale con un americano che, come nei racconti precedenti, la costringerà a fare i conti con il proprio passato. Tuttavia, in modo sorprendente, questo racconto prosegue in Gerusalemme, acquistando un tono molto diverso. Dal punto di vista stilistico Gerusalemme è un racconto estremamente politico, che può essere letto riflettendo sulla realtà israeliana negli anni della seconda Intifada, un’atmosfera di terrore, che a volte diventa surreale. Lo svolgersi dell’intreccio, il ritorno di Idit in Israele, è alternato al racconto di una donna ebrea del I sec. e. v., Ada, che si mette in cammino per portare un sacrificio al Tempio di Gerusalemme durante l’assedio dei romani. L’episodio è molto denso ed è impossibile riprodurne le linee narrative senza svelare troppo al lettore. Ada, coinvolta dalla violenza di una società primitiva, come sembra suggerire l’autrice, è Idit, le cui paure primordiali vengono amplificate dalle paure reali, dalla violenza della realtà del conflitto israeliano-palestinese.
Questo conflitto appare anche in Monaco, il cui protagonista è un giornalista israeliano, figlio di un sopravvissuto alla Shoà, che insiste per essere mandato in Germania a seguire un processo ad un criminale nazista. La menzogna lo sorprenderà, come anche il doloroso problema del rapporto con la Germania del passato e quella del presente, accanto al rapporto con i palestinesi.
Un buon posto per la notte è un racconto apocalittico, che per alcuni aspetti ricorda Mio Dio, grazie, di Bernard Malamud. Sembra che in quest’ultimo testo tutte le riflessioni sul rapporto tra falsità e verità, sul piano personale e su quello storico e sociale, e tutte le ansie dell’Autrice, essa stessa figlia si sopravvissuti, che ci hanno accompagnato sin dal primo racconto, abbiano trovato espressione in una visione limpida, lirica, lucida e spietata a un tempo: quella di un mondo dove una strana arma ha distrutto vite e città, dove gli istinti sono di nuovo primitivi, dove non c’è scelta.
Con questo libro Savyon Liebrecht si rivela una scrittrice sempre più matura e complessa, coinvolgente e al tempo stesso disincantata. Il bisogno quasi fisico di verità costringe i suoi personaggi a giocare il tutto e per tutto, a pagare qualsiasi prezzo, anche a costo di lottare con la storia e il destino. Come è stato già accennato, è forte la tentazione di contestualizzare alcuni di questi racconti, di leggerli alla luce della realtà israeliana di questi ultimi anni, di avere l’impressione che l’autrice li viva come una lotta tra lucidità e follia, nella disperata ricerca di una lezione che la storia non riesce a insegnare.