Sconfiggere il culto islamista della morte

L’ondata di attentati all’arma bianca funziona come un enorme deterrente contro qualsiasi idea di cedere il controllo sulla Cisgiordania

Di David Horovitz

David Horovitz, autore di questo articolo

David Horovitz, autore di questo articolo

L’umore nazionale è mesto; la paura del prossimo attentato, inesorabile. I critici dicono che il governo e le forze armate dovrebbero fare di più per prevenire gli attacchi. Può darsi, per esempio, che un luogo come lo svincolo di Gush Etzion, che è stato teatro di molte recenti aggressioni, debba essere protetto in modo più efficace, e le Forze di Difesa israeliane stanno studiando il modo di tutelare chi vi transita.

Ma il fatto è che in questo paese ebrei e arabi, israeliani e palestinesi, vivono a stretto contatto fra loro. E quando gran parte della leadership politica e spirituale dei palestinesi, il loro sistema educativo, il grosso dei loro mass-media e dei loro social network predicano implacabilmente l’odio verso gli ebrei, l’illegittimità sostanziale dello stato ebraico e il presunto obbligo religioso di uccidere ed essere uccisi, è difficile proteggersi ermeticamente dalle conseguenze micidiali di questo indottrinamento.

Difficile che passi in fretta, quest’ultima ondata di terrorismo. Un’intera nuova generazione di palestinesi è stata imbottita di odio verso gli ebrei e Israele. Certo, non tutti i giovani palestinesi intendono lanciarsi coltello in pugno contro gli ebrei, non tutti sono stati stati reclutati nei campi della morte. Ma il presunto imperativo religioso spinge un numero sempre maggiore di loro ad agire, ormai più di uno al giorno.

9 ottobre 2015, discorso in tv del portavoce e parlamentare di Hamas, Mushir al-Masri: “Il coltello è la nostra scelta”

Mentre una fila di ottusi osservatori esterni fa i salti mortali per cercare di legittimare il terrorismo lamentando le sofferenze dei palestinesi sotto il controllo israeliano, non ci dovrebbe essere nemmeno il bisogno di sottolineare che questa rinnovata e sistematica istigazione alla violenza – esattamente come l’offensiva di attentati suicidi della sciagurata seconda intifada di più di dieci anni fa – è del tutto ingiustificabile, ed anche totalmente controproducente: può solo rendere sempre più remota la prospettiva di uno stato palestinese. Mentre piangono le loro vittime quasi quotidiane, gli israeliani sono perfettamente consapevoli che il bilancio sarebbe molto più pesante se le fabbriche di uomini-bomba a Jenin, a Nablus e nelle altre città della Cisgiordania fossero ancora indaffarate a produrre cinture esplosive e a indottrinare attentatori suicidi. La nuova ondata di attentati all’arma bianca funziona come un enorme deterrente contro qualsiasi idea di cedere nuovamente il controllo della sicurezza su parti della Cisgiordania, come Israele aveva fatto negli anni precedenti la seconda intifada scoppiata nel 2000.

Quando vediamo tutti quegli spettacoli televisivi per bambini palestinesi che esortano ad uccidere gli ebrei, leggiamo gli appelli all’assassinio di Fatah e Hamas, vediamo quotidianamente le madri e i padri degli assassini acclamare i loro figli “martiri”, l’ultima cosa che ci viene in mente di dire è: affidiamo a questa gente la piena sovranità affinché possano più agevolmente realizzare la loro dichiarata aspirazione di buttarci in mare. Mentre dobbiamo difenderci dalle aggressioni, tutte le differenze fra di noi – le discussioni sugli insediamenti, su come preservare uno stato di Israele che sia ebraico e democratico, su cosa potremmo fare di più per creare un’atmosfera che incoraggi la moderazione – vengono semplicemente sopraffatte e rese irrilevanti.

L’ambasciatore d’Israele all’Onu Danny Danon mostra le foto delle vittime israeliane dell’ultima ondata terrorista palestinese

In un momento come questo gli israeliani adattano la propria vita quotidiana per ridurre al minimo la vulnerabilità, guardandosi bene dal rilassarsi durante le attività quotidiane. Si schierano più forze di sicurezza. I servizi di intelligence fanno gli straordinari.

Nulla di tutto questo garantisce la sconfitta alla fonte del terrorismo islamista. Per farlo, ciò che occorre è un’azione concertata a livello di base. Quando qualcuno ti si avventa contro con un mitra, un coltello, un paio di forbici, una bomba, una molotov o con la sua auto, la cosa da fare innanzitutto è fermarlo. L’ideale sarebbe individuarlo e bloccarlo prima che agisca. La battaglia deve essere fisicamente portata nel campo nemico. Ma deve anche essere condotta sul piano educativo: nelle scuole, nelle moschee e on-line. Gli apologeti del terrorismo non devono godere di nessuna tolleranza.

Non sconfiggeremo la tante teste del mostro terrorista islamista finché non sarà fatto a pezzi quel presunto imperativo religioso, cioè fino a quando l’islam estremista non sarà svergognato, ripudiato e infine sconfitto per quello che è: un culto della morte assassina.

(Da: Times of Israel, 23.11.15)