Sconvolgimenti demografici e minacce per Israele

Impossibile immaginare che uno stato palestinese in Cisgiordania abbia la volontà e la capacità di bloccare l’afflusso di profughi da est

Di Caroline B. Glick

Caroline B. Glick, autrice di questo artticolo

Caroline B. Glick, autrice di questo artticolo

La scorsa settimana ricorreva il 17esimo anniversario dell’incoronazione di re Abdullah di Giordania dopo la morte del padre, re Hussein. L’ascesa di Abdullah al trono fu un fatto imprevisto. Suo zio Hassan era da tempo il principe ereditario e ci si aspettava che fosse lui a ereditare la monarchia. Ma Hussein ordinò dal letto di morte l’improvviso cambiamento nella linea di successione. Oggi è difficile credere che Abdullah avrà il potere di decidere il nome del proprio successore.

Per generazioni, la più grande minaccia incombente sulla Giordania è stata la sua maggioranza palestinese. Le stime sulle dimensioni della popolazione palestinese in Giordania variano molto: alcune la collocano a poco più del 50%, altre affermano che i palestinesi costituiscono il 70% della popolazione totale. Ma tutti gli studi demografici attendibili convengono sul fatto che la maggior parte dei giordani sono palestinesi. E’ per via della paura dei suoi abitanti palestinesi che negli ultimi dieci anni o giù di lì Abdullah ha cercato di isolarli. A partire dal 2004 ha iniziato a espellerli dalle forze armate giordane. Poi ha iniziato a revocare la loro cittadinanza. Secondo un rapporto del 2010 di Human Rights Watch, tra il 2004 e il 2008 il Regno ha revocato la cittadinanza di diverse migliaia di giordani palestinesi, mentre altre centinaia di migliaia di persone erano considerate a rischio di perdere presto la loro cittadinanza in forza di un procedimento arbitrario.

Oggi, la preoccupazione che i palestinesi possano far valere i loro diritti come maggioranza e quindi minacciare il Regno ha ceduto il passo a paure ancora maggiori. I cambiamenti demografici in Giordania negli ultimi anni sono stati così enormi che i palestinesi potrebbero essere l’ultima delle preoccupazioni di Abdullah. In effetti, è tutt’altro che certo che essi rappresentino ancora la maggior parte delle persone che vivono in Giordania. Dal momento dell’invasione dell’Iraq guidata dagli Usa nel 2003, tra 750.000 e un milione di iracheni si sono riversati in Giordania. I dati attuali non sono chiari su quanti di quegli iracheni si trovino in Giordania ancora oggi. Ma qualunque sia il loro numero, sono stati superati dai siriani. Oggi, stando al conteggio ufficiale delle Nazioni Unite, i profughi siriani sono 635.000, ma questa cifra ufficiale è probabilmente meno della metà del numero reale di siriani in Giordania, che viene valutato tra 1,1 e 1,6 milioni: circa il 13% della popolazione. Per avere un’idea delle dimensioni di questi cambiamenti demografici basta guardare ai dati storici. Secondo la Banca Mondiale, la popolazione della Giordania si attestava sui 5,29 milioni nel 2004. Nel 2013 era di 6,46 milioni. Nel 2015 risultava di 9,53 milioni.

Profughi siriani in attesa di registrazione presso la città libanese di Arsal

Profughi siriani in attesa di registrazione presso la città libanese di Arsal

L’afflusso massiccio ha portato le risorse pubbliche della Giordania al punto di rottura. Secondo re Abdullah, l’anno scorso un quarto del bilancio del Regno è andato al sostentamento dei profughi. Stando a un rapporto del 2014 della fondazione tedesca Konrad Adenauer, il costo complessivo della presenza siriana in Giordania ha superato i suoi benefici economici di circa 2 miliardi di dollari. Un rapporto dell’istituto londinese Chatham House sui profughi siriani in Giordania ha avvertito che, nei prossimi anni, l’afflusso potrebbe avere un profondo impatto sulla stabilità del Regno. Fino al 2013, la principale preoccupazione del regime era la radicalizzazione delle tribù beduine, in gran parte dovuta alla crescita di al-Qaeda e dello “Stato Islamico” (ISIS) tra le tribù beduine del Sinai, e l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani in Egitto. Anche se queste preoccupazioni rimangono dominanti, oggi vengono messe in ombra dall’impatto destabilizzante dei profughi siriani nel nord del paese. Secondo il rapporto Chatham House del settembre 2015, è vero che il sostegno pubblico per un cambio di regime in Giordania appare ancora scarso, ma “se la situazione economica non riuscirà a migliorare in tutto il paese, e il risentimento dei rifugiati continuerà ad alimentare recriminazioni nazionali, nei prossimi 5 o 10 anni le proteste contro le politiche del governo potrebbero degenerare”.

In Libano la crisi dei profughi è ancora più profonda. Dall’inizio della guerra in Siria, più di un milione di siriani sono entrati in Libano come profughi. Oggi ammontano al 25% della popolazione del paese. Tre quarti dei profughi sono sunniti. La loro presenza in Libano ha sconvolto l’equilibrio demografico fra sunniti, sciiti e cristiani. Mentre Hezbollah schierava migliaia di uomini in Siria per evitare che il regime di Assad sponsorizzato dall’Iran cadesse di fronte alle forze dell’opposizione sunnita, i profughi sunniti in Libano contrastavano le forze di Hezbollah in tutto il paese. Molti di questi sunniti sono affiliati a gruppi salafiti come l’ISIS e il fronte qaedista al-Nusra.

Il campo di profughi siriani Zaatari, nella zona della città giordana di Mafraq, a 8 km dal confine con la Siria.

Il campo di profughi siriani Zaatari, nella zona della città giordana di Mafraq, a 8 km dal confine con la Siria.

Non è affatto chiaro quali saranno le implicazioni a breve e medio termine dei flussi di profughi per la Giordania e per il Libano. Ma non c’è alcun dubbio che avranno profonde implicazioni a lungo termine. Né la Giordania né il Libano hanno un chiaro ethos nazionale unificante. Prima che i siriani iniziassero ad affluire da oltre il confine, gli Hashemiti al potere comprendevano circa il 20% della popolazione complessiva. La spina dorsale del regime erano le tribù beduine che, come ricordato, negli ultimi anni hanno subito un processo di radicalizzazione. Le relazioni della Giordania con Israele sono state già state influenzate negativamente da questo processo. Quando nel 2012 re Abdullah ha nominato Walid Obeidat ambasciatore in Israele, la sua tribù – la più grande in Giordania – lo ha rinnegato. Secondo gli esperti in materia, la mossa della tribù indica che i rapporti tra il regime e le tribù sono al minimo storico. Benché già in precedenza delle nomine di ambasciatori avessero suscitato critiche, la reazione della tribù Obeidat per la nomina in Israele del loro rampollo era senza precedenti. Secondo Chatham House, data l’attuale instabilità sociale nel Regno non è chiaro se il regime di Abdullah sarà in grado di concretizzare il suo accordo con Israele sul gas naturale.

Sia Israele che gli Stati Uniti considerano un interesse nazionale la sopravvivenza della monarchia Hashemita. Ed entrambi hanno messo in chiaro, nel corso degli anni, che sarebbero disposti a schierare truppe per difendere il regime Hashemita dalle forze islamiste che negli ultimi anni hanno giurato di rovesciarlo. D’altra parte, è difficile credere che le minacce al regime, in particolare la minaccia demografica posta dal massiccio afflusso di popolazione dalla Siria, possano diminuire nel prossimo futuro. Anzi, l’ingresso in guerra della Russia a fianco del regime di Assad sponsorizzato dall’Iran causerà probabilmente un aumento del numero di siriani in cerca di rifugio nei paesi vicini. E lo stesso vale per il Libano.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita martedì alla nuova barriera difensiva eretta al confine con la Giordania nella valle di ‘Arava

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita martedì alla nuova barriera difensiva eretta al confine con la Giordania nella valle di ‘Arava

Le trasformazioni demografiche che Giordania e Libano stanno subendo richiedono che Israele riesamini la propria posizione regionale e le sue opzioni strategiche allo scopo di salvaguardare e difendere il paese nei prossimi anni. Il che è particolarmente vero per tutto ciò che riguarda le valutazioni sulla minaccia demografica.

Purtroppo, nonostante il crollo della Siria e dell’Iraq e nonostante le minacce in aumento in Egitto, Giordania e Libano, la maggior parte degli analisti, sia in Israele che all’estero, continuano a basare la loro visione delle opzioni che Israele ha davanti – in particolare in relazione ai palestinesi – su una mappa geopolitica regionale che non è più pertinente. Alla luce di questi sconvolgimenti demografici regionali, l’idea che Israele debba trasferire, oggi, altri territori sul suo fianco orientale nelle mani di una Autorità Palestinese cronicamente instabile e ostile è come minimo avventata. Con tutte le loro debolezze, sia il regime giordano che quello libanese sono di gran lunga più forti dell’Autorità Palestinese. Eppure non sono in grado di fermare i flussi di milioni di profughi attraverso le loro frontiere. E’ impossibile immaginare che uno stato palestinese sul versante occidentale del fiume Giordano avrebbe la capacità, per non dire la volontà, di bloccare l’afflusso di profughi da est, a maggior ragione quando i palestinesi stessi invocassero la libera immigrazione di milioni di palestinesi etnici provenienti da Giordania, Siria e Libano.

Le trasformazioni demografiche in questi anni in Giordania e Libano dimostrano che la più grande minaccia demografica per gli stati ancora funzionanti in questa regione non è la crescita naturale interna, bensì l’afflusso di profughi che vi si riversano dagli stati che sono collassati. Anche per la sopravvivenza a medio-lungo termine di Israele, la minaccia più grave sarebbe un afflusso in uno stato palestinese sul versante occidentale del fiume Giordano di milioni di profughi provenienti dagli stati confinanti.

Parlando la settimana scorsa alla conferenza di Londra sulla Siria, re Abdullah ha avvertito che la Giordania è al “punto di rottura” e ha chiesto all’Occidente di impegnarsi per una donazione di 1,6 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi tre anni prima che “la diga ceda”. Purtroppo, la diga ha già iniziato a cedere. E se Israele non vuole essere sommerso, è giunto il momento di capire che il vecchio modo di pensare i termini del problema non serve più a nulla.

(Da: Jerusalem Post, 8.2.16)