Se cambiare l’ordine degli addendi rende possibile il risultato

Netanyahu punta a capovolgere l'ordine convenzionalmente accettato per il processo di pacificazione

Editoriale del Jerusalem Post

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu

Nella sua prima dichiarazione pubblica dopo il giuramento del nuovo ministro della difesa Avigdor Lieberman, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato del conflitto israelo-palestinese e, in particolare, dell’iniziativa di pace araba (saudita) del 2002. Ma, a differenza dell’iniziativa araba che fa dipendere la normalizzazione dei rapporti fra il mondo arabo e Israele da una previa soluzione del conflitto israelo-palestinese, Netanyahu propone che la normalizzazione venga prima, e l’accordo di pace coi palestinesi dopo. Ecco perché Netanyahu, parlando con Lieberman al suo fianco, ha dichiarato: “L’iniziativa di pace araba contiene elementi positivi che possono contribuire a rilanciare negoziati costruttivi con i palestinesi”.

L’iniziativa che Netanyahu sta promuovendo punta a capovolgere l’ordine convenzionalmente accettato per il processo pacificazione. Il modello di Oslo, l’iniziativa araba e – per quel che vale – l’iniziativa francese si basano sull’idea che una pace negoziata con i palestinesi sarebbe il precursore e il presupposto necessario per la pace e la normalizzazione con tutto il mondo arabo. Netanyahu vuole rovesciare questa sequenza.

Secondo questa linea di pensiero, bisogna innanzitutto arrivare ad una composizione con il mondo arabo. Una volta arrivati a questo, i palestinesi potranno contare su un ampio sostegno regionale per intraprendere l’opera di nation-building, la costruzione del loro paese. Solo allora si potrà avviare un dialogo realmente fruttuoso tra israeliani e palestinesi.

Israele e il mondo arabo

Israele e il mondo arabo

Questo approccio si basa sull’idea che, oggi più che mai, Israele e stati arabi sunniti come la Giordania, l’Egitto e l’Arabia Saudita condividono una serie di interessi, dalla lotta contro lo “Stato Islamico” (ISIS) al contenimento delle pretese egemoniche del regime iraniano nella regione. Inoltre gli stati arabi sanno che trarrebbero vantaggi da buoni rapporti economici con Israele.

Una volta creato un quadro di relazioni pacifiche tra Israele e stati sunniti, potrà aggiungersi all’equazione la componente palestinese. Netanyahu ritiene, a ragione, che i palestinesi avranno bisogno del sostegno arabo per superare i loro laceranti conflitti interni, che rendono impossibile la costruzione dello stato palestinese in questo momento. La spaccatura tra Hamas e Fatah ha creato di fatto due territori distinti – uno nella striscia di Gaza e l’altro in Cisgiordania – ciascuno con la propria dirigenza e le proprie politiche. Solo dopo che questa frattura sarà sanata si potrà discutere seriamente di uno stato palestinese.

Di più. Il coinvolgimento di Egitto e Giordania, due paesi guidati da regimi che si oppongono ai Fratelli Musulmani, potrebbe esercitare un impatto moderatore sulla società palestinese, che nell’ultimo decennio ha manifestato una rovinosa tendenza a prediligere Hamas rispetto a Fatah. Solo un quadro regionale saldamente ancorato alla pacificazione con Israele potrebbe attenuare il giustificato timore degli israeliani di ritrovarsi con i jihadisti di Hamas, Hezbollah o peggio al comando del futuro stato palestinese.

Resta la questione se egiziani, giordani e sauditi saranno disposti a collaborare ad una tale iniziativa. Lo sconvolgimento che ha investito il Medio Oriente a seguito della cosiddetta “primavera araba” ha effettivamente creato nuove opportunità di cooperazione tra Israele e alcuni dei suoi vicini. Sapranno trarre vantaggio da quest’opportunità gli stati sunniti più moderati della regione?

(Da: Jerusalem Post, 6.6.16)