Se Hamas mette in conto lo scontro

Il movimento jihadista palestinese si rafforza sia con la guerra che con la tregua

Da un articolo di Ali Waked

image_2352Hamas, al momento in cui scriviamo queste righe, a differenza di altri gruppi terroristici della striscia di Gaza non ha ancora lanciato un solo missile Qassam verso Israele da quando è finita la “tregua”. L’ala militare di Hamas, le Brigate Izz-al-Din al-Qassam, non hanno lanciato razzi su Ashkelon né su Sderot, accontentandosi di fare fuoco coi mortai sulle località israeliane attorno alla striscia di Gaza. Anche le granate di mortaio possono uccidere, ma Hamas le usa per inviare un messaggio: siamo ancora interessati a una “tregua”, purché alle nostre nuove condizioni.
Israele conosce bene le condizioni di Hamas: apertura completa dei valichi di confine della striscia di Gaza, alleggerimento del blocco. Israele non è disposto ad accogliere queste richieste (perlomeno non prima che Hamas accetti le famose tre condizioni poste dal Quartetto: riconoscimento del diritto di esistere di Israele, ripudio del terrorismo, rispetto degli accordi già firmati fra Israele e palestinesi). Per questo Hamas permette ai gruppi minori di lanciare i loro Qassam.
Il ritorno a un fuoco intenso permette a Hamas di reclamare il titolo di “movimento di resistenza”, un po’ appannato nei mesi scorsi. Per non restare esclusa dal ciclo della “resistenza” e della lotta armata, Hamas prende parte alla nuova ondata di fuoco usando i mortai. Intanto, però, tiene in serbo i suoi missili per il momento in cui l’eventualità di un intervento militare israeliano passasse dalle parole ai fatti.
I gruppi palestinesi a Gaza sostengono che questi attacchi sono la risposta alle azioni israeliane, ma – a parte l’eccezionale uccisione di un capo della Jihad Islamica la scorsa settimana in Cisgiordania – non si sono visti motivi immediati per questa nuova ripresa dei lanci. Appare dunque chiaro che il vero, principale obiettivo di Hamas è quello di riformulare le regole del gioco, vale a dire le regole della “tregua”. (Non bisogna dimenticare che Hamas ha ben pochi successi da vantare, con il suo metodo dello scontro e del sequestro di ostaggi – Gilad Shalit – a differenza dell’Autorità Palestinese di AbuMazen-Fayyed che ha ottenuto la scarcerazione di centinaia di detenuti, il ritorno di legge e ordine nelle città palestinesi, una ripresa economica e turistica in Cisgiordania ecc: Hamas ha dunque urgente bisogno di qualche risultato.)
Naturalmente Hamas tiene conto del fatto che, in un periodo di campagna elettorale in Israele vi sono esponenti tentati dall’idea di imbracarsi in un’operazione anti-terrorismo su vasta scala. Ma il gruppo palestinese valuta che, prima dell’avvio di una tale operazione, l’Egitto sarebbe in grado di calmare le tensioni.
Il problema è che i rapporti Egitto-Hamas sono molto deteriorati da quando, nel giugno scorso, è entrata in vigore la “tregua”. Non è detto che l’Egitto abbia poi molto da ridire se Israele dovesse sferrare un duro colpo contro “l’emirato di Hamas” a Gaza, i cui fan hanno già inscenato nei giorni scorsi mal sopportate manifestazioni di protesta davanti alle ambasciate egiziane in giro per il mondo.
Gli uomini di Hamas hanno parecchio da perdere. Se la “tregua” non dovesse riprendere e Israele dovesse decidere di lanciarsi in un’operazione davvero di ampia portata, i capi di Hamas rischiano la vita e Hamas stessa potrebbe finire col perdere Gaza. Ma la striscia di Gaza viene considerata una preziosa base politico-diplomatico-militare per portare avanti il tentativo di Hamas di legittimarsi come un’importante soggetto sul piano regionale e internazionale. Inoltre la striscia di Gaza riveste enorme importanza rispetto alla strategia islamista di Hamas, come base fondamentalista da allargare in futuro alla Cisgiordania e ad altre regioni.
Il desiderio di Hamas di mantenere la presa sulla striscia di Gaza è stato il motivo per cui aveva scatenato una lotta senza quartiere contro chiunque cercasse di violare la “tregua”. Il problema è che le elezioni israeliane si avvicinano e ancora di più si avvicina la data del 9 gennaio, il girono n cui Hamas non riconoscerà più nemmeno formalmente la presidenza di Mahmoud Abbas (Abu Mazen). I calcoli di altri soggetti nella regione possono finire col provocare davvero un’operazione su vasta scala, il cui obiettivo a questo punto sarebbe quello di rovesciare il regime di Hamas a Gaza. La reazione di Hamas sarebbe il ricorso ai missili (non qualche decina, ma centinaia) e agli attentati suicidi all’interno di Israele, più un raddoppiato sforzo per demolire l’Autorità Palestinese.
Il paradosso è che un’operazione militare che non riuscisse ad eliminare completamente Hamas servirebbe solo a incrementarne la popolarità, mentre la continuazione della “tregua” permetterebbe a Hamas di rafforzare il suo regime su Gaza.
Secondo l’opinione di un commentatore di Gaza, gli esperti palestinesi sono convinti che Hamas possa essere colpita anche duramente, ma è molto difficile pensare che possa essere eliminata. Un’operazione, per quanto ampia e pesante, non modificherebbe l’ordine interno palestinese, che è ciò che influenza la situazione rispetto a Israele. Qualunque progresso sul fronte interno palestinese potrebbe essere ottenuto solo attraverso un dialogo che peraltro, in questo momento, non si intravede all’orizzonte.
Pertanto, se non compariranno iniziative egiziane o europee intese a mediare tra le parti, e se considerazioni tattiche continueranno a impedire di discutere una nuova “tregua”, allora i missili centineranno a cadere, con i palestinesi in attesa del raid israeliano.

(Da: YnetNwes, israele.net, 23.12.08)

Nella foto in alto: Un mural a Gaza