Se ne discute in Israele

Alcuni commenti dagli editoriali della stampa israeliana di mercoledì 5 agosto

Yediot Aharonot sostiene che la direttiva del ministro dell’istruzione Gideon Saar di togliere la parola ‘nakba’ (catastrofe, in riferimento alla nascita di Israele) dai libri di testo del settore arabo è un’indicazione che si sente minacciato dal termine, “nonostante il fatto che gli ebrei sono la maggioranza che controlla tutto nel paese”. L’editoriale suggerisce che molti israeliani vedono gli arabi israeliani come ostili e sono mossi da “una sindrome che è rimasta dal trauma dell’Olocausto, la nostra paura collettiva di apparire deboli”.

Ma’ariv dice che “e dimostrazioni di massa a Teheran e la loro repressione simbolizzano una grande debolezza dei leader di Teheran, una debolezza che caratterizza tutte le non-democrazie: non fondarsi sulla partecipazione del popolo e la conseguente apertura di un gap distruttivo tra quelli che governano e quelli che sono governati. Da dentro questi gap fioriscono lerivoluzioni”.

Yisrael Hayom, sullo sfondo dell’odierna celebrazione del 15 di Av, dice che “dopo giorni faticosi di distruzione e di odio, c’è bisogno di un intervallo, di un allentamento dell’ostilità continua tra i popoli e tra le ideologie. C’è bisogno d’amore”.

Il Jerusalem Post discute della sesta Assemblea Generale del Fatah, iniziata ieri a Betlemme, oltre 20 anni dopo l’ultimo congresso del Fatah, e osserva tristemente che “il governo di Israele e la nuova amministrazione americana stanno cercando di creare un clima per un sostanziale progresso nei negoziati israelo-palestinesi. Il congresso del Fatah rappresenta un’opportunità per Abu Mazen e i suoi colleghi di rassicurare il mondo in attesa e sottolineare ai loro elettori che il loro scopo è la vera pace, cioè che sono impegnati sulla strada di una possibile riconciliazione con Israele. Purtroppo, e in modo controproducente per tutte le parti, le indicazioni finora sono alquanto diverse”.

Haaretz chiede al governo di permettere alle famiglie sfrattate dalle loro case nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme di ritornare a casa e dichiara che “uno stato democratico che lotta per la pace e la giustizia non ha assolutamente il diritto di sradicare famiglie che sono diventate profughe nel 1948″. L’editoriale aggiunge che “il governo deve immediatamente riportare i residenti palestinesi alle loro case a Sheikh Jarrah e cancellare gli ordini di sfratto che sono stati emessi contro le case aggiuntive”.