Se è Obama che blocca i negoziati

Fare degli insediamenti la questione principale si sta dimostrando del tutto controproducente

di Herb Keinon

image_2534Mentre il ministro della difesa israeliano Ehud Barak torna a Washington, lunedì, per un altro round di colloqui centrati sul tema delle attività edilizie negli insediamenti, è istruttivo chiedersi, a questo punto, che cosa esattamente il presidente Usa Barack Obama sui proponga di ottenere quando cerca di mettere il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alle corde su questa materia.
Se, come alcuni sostengono, si tratta di un modo con cui Obama cerca di accrescere le sue credenziali agli occhi del mondo arabo, allora okay, è una politica comprensibile. I diplomatici americani ed europei dicono sempre che, ovunque vadano nel mondo arabo, le attività edilizie negli insediamenti sono l’unico argomento che si sentono ripetere continuamente: che le attività edilizie negli insediamenti avvelenano l’atmosfera, e che la serietà di Obama nel tracciare la sua nuova politica verso il mondo arabo verrà giudicata in non piccola misura da come affronterà Israele su questa questione.
E Obama, come è stato ripetuto fino alla nausea, vuole il mondo arabo dalla sua: vuole che il mondo arabo lo aiuti a uscire dall’Iraq e dalla sempre peggiore palude dell’Afghanistan, ed anche a trattare con l’Iran (sebbene la politica della comunità internazionale verso l’Iran sia verosimilmente destinata a subire un drastico riesame alla luce delle lacerazioni interne alla società iraniana che ora sono sotto gli occhi di tutti).
Si potrebbe sostenere che suona un po’ bizzarro collegare le attività edilizie negli insediamenti israeliani in Cisgiordania con la chiusura dei confini tra la Siria e l’Iraq o con il fatto che gli Emirati Arabi Uniti riducano i loro fiorenti scambi commerciali con Teheran. Ma è il collegamento che viene fatto continuamente, e Obama vuole rimuovere questo particolare ostacolo dal suo cammino.
Se invece Obama è così energico sugli insediamenti nella convinzione che ciò possa spingere avanti il processo negoziale, allora si sbaglia.
Che fosse o meno nelle intenzioni di Obama, è un fatto che la sua linea dura sugli insediamenti fa dipendere i negoziati israelo-palestinesi dal congelamento completo degli insediamenti, una cosa che il governo Netanyahu – per la sua composizione politica e per il suo desiderio di durare politicamente – semplicemente non farà.
Ecco dunque come stanno le cose, fin qui, per la politica di Obama sugli insediamenti: gli Stati Uniti chiedono con forza il completo congelamento degli insediamenti; Netanyahu ha chiarito che non acconsentirà; i palestinesi dicono che non inizieranno a negoziare finché il congelamento non sarà in vigore. Risultato finale: i negoziati non partono.
Paradossalmente questa situazione di non-negoziato è positiva e confortevole per il presidente dell’Autorità Palestinese. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non ha interesse a negoziare con Netanyahu giacché immagina – probabilmente a ragione – che dal primo ministro del Likud non otterrebbe nulla di più di quanto aveva già ottenuto dal suo predecessore Ehud Olmert, che era disposto a cedere più del 93% della Cisgiordania, compensando il resto con scambi territoriali, e ad abbandonare la rivendicazione israeliana sul cosiddetto “bacino santo” in Gerusalemme vecchia. Abu Mazen respinse l’offerta di Olmert spiegando al Washington Post che il gap era troppo ampio. Oggi ha probabilmente ragione di credere che quel gap non è destinato a stringersi, con Netanyahu, e dunque perché negoziare? Oltretutto proprio ora che Obama gli offre una bella scusa per non farlo.
La situazione di non-negoziato potrebbe tornare utile anche a Netanyahu, per lo meno se si dà credito ai suoi critici secondo i quali il primo ministro israeliano in realtà non crederebbe possibile arrivare a un accordo con i palestinesi. Netanyahu ha detto chiaramente che non accetterà un congelamento completo: ha detto che non costruirà nessun nuovo insediamento e che non aggiungerà altre terre a quelli che già esistono, ma ha anche detto che non congelerà le attività edilizie dovute a crescita naturale. Tanto per cominciare, non è nemmeno chiaro se abbia il potere legale di farlo. Come si fa a bloccare la costruzione di un appartamento già completato al 75%? Che ne sarebbe degli obblighi contrattuali? E dei soldi investiti? In secondo luogo, se anche Netanyahu potesse fermare magicamente tutto con un semplice gesto della mano, non potrebbe farlo politicamente. Con Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman che gli respira sul collo, il primo ministro non farà scelte che la maggior parte degli israeliani, secondo recenti sondaggi, non ritiene che debba fare: fermare le costruzioni dovute a crescita naturale anche nei grandi blocchi di insediamenti a ridosso della ex Linea Verde.
Se Obama pensa che, pressando duramente Israele su questo tema, l’opinione pubblica israeliana si rivolterà contro Netanyahu o che Netanyahu se ne uscirà tranquillamente di scena, allora si sbaglia sia sul pubblico israeliano che su Netanyahu. Netanyahu, che in questo momento sta già corteggiando Shaul Mofaz di Kadima, non si farà abbattere tanto facilmente.
È interessante notare come, la scorsa settimana, due ex esperti ben introdotti a Washington profondamente coinvolti negli anni scorsi sulla questione mediorientale – Aaron David Miller, negli anni ’90 negoziatore mediorientale per la sinistra, e Elliott Abrams, già vice consigliere della sicurezza nazionale per la destra –parlando a Washington hanno entrambi affermato che l’amministrazione Obama sbaglia a concentrarsi in questo modo sugli insediamenti.
Abrams ha detto di non capire quella che sembra essere la decisione di Obama di “sposare la posizione secondo cui è Israele il problema”. E in effetti, fare degli insediamenti la questione principale significa assolvere la parte palestinese da ogni responsabilità. Miller, dal canto suo, ha detto che “per quanto gli insediamenti costituiscano un problema effettivo riguardo all’erosione dell’atmosfera favorevole al negoziato”, essi sono tuttavia una “distrazione”, visti tutti gli altri problemi che bisogna affrontare. “Alla luce della posta in gioco e della realtà di fatto – ha detto Miller, certamente non un tifoso degli insediamenti – avremo bisogno di un rapporto di un rapporto stretto con Israele per affrontare tutti quei problemi. Dobbiamo pensare molto attentamente a come ci muoviamo, a quale sia la strategia e quale l’obiettivo”.
E davvero, se l’obiettivo degli Stati Uniti è di far partire i negoziati, allora la politica dell’amministrazione Obama di fare degli insediamenti la questione principale si sta dimostrando del tutto controproducente.

(Da Jerusalem Post, 25.06.09)