Se questo non è terrorismo…

Fa male al cuore vedere estremisti palestinesi che approfittano della buona volontà israeliana per propositi atroci

Di David M. Weinberg

David M. Weinberg, autore di questo articolo

Due donne palestinesi sono state sorprese settimana scorsa mentre cercavano di introdurre esplosivi dalla striscia di Gaza in Israele per conto di Hamas. Le due sorelle nascondevano l’esplosivo fra le medicine che avevano ricevuto in Israele dal momento che una di loro, malata di cancro, è in cura presso un ospedale israeliano.

Già il mese scorso, il vice ministro della difesa israeliano Eli Ben-Dahan aveva rivelato che Hamas sfrutta i malati di cancro a Gaza per contrabbandare oro e denaro dentro Israele allo scopo di finanziare operazioni terroristiche.

Tutti, qui, ricordano Wafa Samir Ibrahim al-Biss, la 21enne palestinese di Gaza che nel 2005 venne catturata con 10 kg di esplosivo legati alle gambe, sotto il vestito, mentre passava la frontiera per recarsi al centro medico di Soroka dell’Università di Beersheba dove veniva curata per ustioni dovute a un incidente domestico di cinque mesi prima. Ammise di essere stata reclutata dalle Brigate Martiri di al-Aqsa di Fatah, aggiungendo che intendeva uccidere nell’ospedale “venti o cinquanta ebrei, bambini compresi”. (Per la cronaca, nel 2011 Al-Biss è stata scarcerata nell’ambito del ricatto di Hamas per la liberazione dell’ostaggio israeliano Gilad Shalit. Giunta a Gaza, ha ribadito d’essere pronta a “sacrificare” la propria vita e ha detto ai bambini di una scuola: “Spero che seguirete il nostro esempio e che, a Dio piacendo, vedremo alcuni di voi diventare martiri”).

Wafa Samir Ibrahim al-Biss, dopo la scarcerazione del 2011

Nonostante i rischi per la sicurezza, Israele consente ogni anno a decine di migliaia di palestinesi della striscia di Gaza di entrare in Israele per ricevere cure mediche in Israele (o in Cisgiordania, o in Giordania). E’ un fatto che conosco di prima mano. Per dieci anni ho lavorato nell’amministrazione dello Sheba Medical Center di Tel Hashomer, il più grande ospedale del Medio Oriente. Un quarto di tutti i pazienti dell’istituto pediatrico Edmond e Lily Safra dello Sheba Center sono arabi di Gaza. Curare questi bambini provenienti dalla terra nemica di Hamas è un impegno umanitario molto complesso che nasce dal senso di umanità radicato nella storia e nella tradizione ebraica. I medici e gli amministratori dello Sheba sono fieri dei loro sforzi, come quelli di altri ospedali israeliani che offrono analoga assistenza ai palestinesi dalla Cisgiordania, ai feriti siriani e, tacitamente, ad arabi provenienti da tutto il Medio Oriente. Ma fa male al cuore vedere forze perfide sfruttano questa professionalità e questa buona volontà per propositi atroci, e che abusano della nostra generosità umanitaria per fare del terrorismo.

Sono stato testimone oculare della seguente, ignobile vicenda. Diversi anni fa c’era un bambino palestinese di otto anni affetto da una rara forma di cancro. Senza un trapianto di midollo osseo era destinato a morire, e fu portato allo Sheba. Lo Sheba si adoperò con tenacia per ottenere il permesso di entrare a Gaza e testare i parenti del bambino, finché i medici trovarono un fratello di 18 anni che aveva la combinazione giusta per donare il midollo osseo. Il problema era che le autorità israeliane non volevano concedere l’ingresso in Israele di questo fratello perché era un attivista di Hamas legato a noti terroristi. Tuttavia, un certo numero di medici dell’ospedale riuscì a inoltrare con successo una petizione al Ministero della difesa che accordò una dispensa speciale per consentire al fratello maggiore di entrare in Israele e salvare la vita al fratellino. Il fratello maggiore arrivò nel tardo pomeriggio di un venerdì e i medici avviarono la delicata procedura. Sfruttando una finestra di 24 ore, il piano era quello di deprimere il sistema immunitario del paziente, raccogliere il midollo osseo dal fratello donatore e eseguire il trapianto. Ma venerdì sera a mezzanotte, quando era giunto per il fratello donatore il momento di fare la sua parte, si vide che era sparito. I medici sembravano impazziti, finché un’infermiera disse d’averlo visto prelevare da due agenti dei servizi segreti. Sembrava la condanna a morte per il bambino malato di otto anni.

La piccola Tasmin, di Gaza, con sua madre e Nagah Zad, infermiere capo del dipartimento di terapia intensiva cardiaca dello Sheba Medical Center di Tel Hashomer.

Cosa si può fare nel mezzo della notte? Il direttore dell’ospedale chiamò direttamente l’ufficio del primo ministro (che sovrintende ai servizi di sicurezza). Dov’è il mio donatore di midollo osseo? chiese senza tanti complimenti. Entro due ore fu messo in contatto con un funzionario della sicurezza di altissimo livello che ammise: sì, lo avevano portato via loro. I servizi di sicurezza avevano preso delle precauzioni e aveva messo sotto controllo le conversazioni del cellulare del diciottenne. E avevano sentito che, dall’interno dell’ospedale israeliano dove era stato appositamente portato per salvare la vita del fratello minore, quel giovane terrorista palestinese stava dando istruzioni per telefono ai suoi contatti di Hamas a Gaza su come superare i sistemi di sicurezza dello Sheba Medical Center e farlo saltare in aria. (Per la cronaca, la fine della storia è che, malgrado questo sopruso, il direttore dell’ospedale chiese che il giovane terrorista venisse riportato all’ospedale per qualche ora per salvare la vita del bambino di otto anni. I servizi di sicurezza lo riportarono indietro alle 4 del mattino con le catene alle caviglie perché donasse il midollo osseo, e i medici riuscirono a salvare la vita del fratello minore. Dopodiché il terrorista di 18 anni è stato nuovamente portato via.)

Inutile dire quanto questa storia faccia ribollire il sangue, quanto ferisca rendersi conto d’essere sfruttati da estremisti palestinesi violenti, rendersi conto che agiamo con umanità e compassione mentre i nostri nemici agiscono in modo disumano e crudele. Storie come questa non fanno che esacerbare la nostra sensazione di essere isolati e demonizzati, quando in realtà i veri demoni sono quelli che non avrebbero esitato a colpire un ospedale israeliano che stava facendo di tutto per curare palestinesi, compresi i membri di una famiglia legata a Hamas. Storie come questa alimentano l’indignazione degli israeliani, giustamente e comprensibilmente.

E alimentano la mortificazione per essere così poco capiti e apprezzati dal mondo. Se avessi raccontato questa storia a un giornalista straniero (una cosa che, al momento, non era possibile), ad esempio al corrispondente del New York Times, pensate che l’avrebbe pubblicata? Pensate che di una storia così lusinghiera verso a Israele e così sgradevole per i palestinesi il quotidiano avrebbe fatto un bel servizio, magari in prima pagina? Molto improbabile. In base ad anni di esperienza professionale come portavoce di istituzioni mediche, accademiche, difensive e diplomatiche israeliane, posso testimoniare quanto sia difficile ottenere la pubblicazione di una storia che non corrisponda alla linea convenzionale e politicamente corretta secondo cui Israele è sempre il persecutore e i palestinesi sono sempre le vittime.

(Da; Jerusalem Post, Israel HaYom, 20.4.17)