Siria e dintorni: l’unica buona notizia è il declino dell’ISIS

La Siria di un tempo non esiste più, mentre l’Iran si profila come il vero vincitore dell'era "post-primavera araba"

Di Avi Issacharoff

Avi Issacharoff, autore di questo articolo

La guerra civile in Siria è entrata mercoledì scorso nel suo settimo anno. Dopo sei anni definiti dall’Alto Commissario Onu dei diritti umani Zeid Ra’ad al-Hussein come “il peggiore disastro prodotto dall’uomo dopo la seconda guerra mondiale”, qualche notizia incoraggiante è arrivata la settimana scorsa da Astana, in Kazakhstan. Il terzo round di colloqui sulla riconciliazione in Siria, guidati dalla Russia, sono iniziati con l’annuncio che sarebbe stata istituita una squadra speciale per supervisionare l’applicazione sul terreno del cessate il fuoco. I membri del team saranno Turchia, Russia e Iran. Secondo una dichiarazione di Alexander Lavrentiev, capo della delegazione russa ai colloqui, le parti hanno convenuto di fornire mappe che illustrino la posizione di gruppi terroristici come ISIS e Jabhat Fateh al-Sham (ex al-Nusra).

Ma nel caso qualcuno pensasse, anche solo per un momento, di intravedere una luce alla fine di questo tunnel intriso di sangue, ci hanno pensato le notizie da Damasco a riportare tutti alla realtà: due attentati terroristici, uno presso il tribunale della capitale, l’altro a un ristorante vicino, hanno causato più di 25 morti. Si è trattato di un inequivocabile messaggio da parte dei gruppi islamisti sunniti rivolto a chi fa affidamento su un ritorno al passato e sul ristabilimento della Grande Siria. In realtà, non rimane granché della Siria di sei anni fa. Quasi mezzo milione di persone sono state uccise e un numero imprecisato di milioni di altre sono state ferite o mutilate. Cinque milioni di persone (un quinto della popolazione totale) hanno lasciato le proprie case, come sfollati in patria o profughi all’estero. L’economia del paese è a pezzi, le infrastrutture in rovina, la popolazione patisce una carenza cronica di elettricità, acqua e cure mediche.

Ciò che i colloqui Astana hanno reso abbondantemente chiaro è che la Siria non è più in mani siriane. Una diabolica miscela di potenze e altri interessi stranieri sta rimodellando la mappa di quella che una volta era la Siria. La fascia costiera e molte delle grandi città sono ancora controllate da Bashar Assad, il presidente nominale. La zona un tempo conosciuta come “Alawistan” per via del ramo alawita dell’islam che vi era politicamente dominante, è ormai nota agli ufficiali israeliani come “Assadistan” (comunque in quelle zone i residenti sunniti rappresentano una maggioranza di quasi il 70%), mentre il resto del territorio è diviso fra gruppi ribelli moderati, estremisti come l’ISIS e Jabhat Fateh al-Sham, i curdi e la Turchia.

Un combattente della milizia irachena sciita Saraya al-Salam, del religioso e politico Muqtada al-Sadr, accanto a un lanciarazzi durante gli scontri con i miliziani dell’ISIS a Tuz Khurmatu, nella provincia Salaheddin (estate 2014)

In realtà il quadro è ancora più complicato. L’influenza di attori stranieri come la Russia, gli Stati Uniti e, naturalmente, l’Iran, è ben visibile anche in quelle zone. La debolezza dello Stato Islamico (ISIS) nella regione e la sue perdite di territori che prima controllava – a causa tra l’altro dei massicci attacchi aerei americani – ha portato nel contempo al radicamento di una significativa influenza iraniana in tutta la Siria, soprattutto nelle zone controllate da Assad.

Così l’Iran, mentre sfrutta la guerra civile in Siria e il cambio di potere nello Stato Islamico in Iraq, appare sempre più come il grande vincitore della “primavera araba” nella regione che si estende da Teheran a Latakia e più a sud fino a Beirut. La “mezzaluna sciita”, dalla quale re Abdullah di Giordania aveva messo in guardia più di dieci anni fa, sta accumulando un potere senza precedenti nella regione, anche senza possedere la bomba atomica e con il programma nucleare congelato. Se in passato lo slogan “l’islam è la soluzione” si era diffuso in particolare tra i sunniti (in riferimento a gruppi come la Fratellanza Musulmana e Hamas), forse d’ora in poi lo slogan sarà “l’islam sciita è la soluzione”.

L’Iran controlla aree di territorio che vanno dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo e ha preso il controllo dell’Iraq da dove sta espellendo l’ISIS utilizzando milizie sciite sotto il suo comando. Il sito di notizie israeliano Walla ha riportato questa settimana che l’Iran sta aprendo una strada “trans-irachena” che va dall’Iran alla Siria. Teheran esercita un’enorme influenza su ciò che accade in Siria sia militarmente che economicamente. Gestisce un franchising di telefonia cellulare in tutto l’Iraq e – come è stato detto nei colloqui, all’inizio del mese a Mosca, tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente russo Vladimir Putin – si sta adoperando per costruire un porto a Latakia, sulla costa mediterranea della Siria. Anche se la costruzione non è ancora iniziata, l’Iran ha presentato un progetto ad Assad, il quale propende per l’approvazione. In poche parole, la proposta è che l’Iran affitti terreni nella città siriana per cinquant’anni e li utilizzi per creare il suo terminale marittimo. In ogni modo, il porto sarebbe sotto sovranità iraniana e i siriani non vi avrebbero accesso. In altri termini, sarebbe come la base navale che i russi hanno stabilito sin dagli anni ‘70 nella città siriana di Tartus (poco più a sud).

La “mezzaluna sciita”

L’influenza dell’Iran in quella che era la Siria non finisce qui, naturalmente. Vi operano attualmente tra i 1.300 e 1.500 iraniani: soldati combattenti, personale di intelligence, membri del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, personale logistico ecc. (in base a stime israeliane, finora  da 150 a 200 iraniani sono rimasti uccisi nei combattimenti in Siria). In aggiunta ci sono le milizie sciite finanziate dall’Iran, che ammontano a circa 7.000-10.000 combattenti provenienti da luoghi lontani come Pakistan e Afghanistan. Più, naturalmente, i combattenti sciiti di Hezbollah – almeno 8.000 in territorio siriano – che prendono ordini da Teheran (secondo varie stime, i combattenti Hezbollah morti finora in Siria sono tra 1.700 e 2.000).

Nei mesi scorsi l’Iran ha fatto di più che semplicemente trasferire armi a Hezbollah e alle milizie sciite in Siria e in Libano. Secondo un recente reportage del quotidiano kuwaitiano al-Jarida, Teheran ha iniziato ad accelerare la sua corsa agli armamenti con la creazione di strutture per la produzione di razzi direttamente in quei paesi. I particolari forniti nel reportage sono ovviamente incompleti. Gli impianti, per lo più sotterranei, sono controllati da membri della Guardia Rivoluzionaria iraniana sia in Libano che in Siria. Le armi che vi vengono fabbricate non possono che destare preoccupazione in Israele. Si tratta di razzi tutt’altro che ordinari, e particolarmente precisi, che vanno ad aggiungersi al tradizionale arsenale ordinario.

Ma il dispiegamento iraniano nell’era “post-primavera araba” non si limita all’area fra Teheran, Latakia e Beirut. In effetti, le sue lunghe braccia si estendono fino allo Yemen e alla striscia di Gaza. Sicché, mentre la guerra civile siriana entra nel suo settimo anno, i cittadini che restano in quel paese e il Medio Oriente nel suo complesso possono tirare un sospiro di sollievo su un unico aspetto: il controllo dell’ISIS su tutta l’area si sta indebolendo. Ma l’influenza iraniana, che avrà dure ripercussioni per i sunniti della regione, è in crescita e all’orizzonte non si intravedono né calma né stabilità.

(Da: Times of Israel, 19.3.17)

La Siria dopo sei anni di guerra civile (da: Limes, 15.03.17) – clicca per ingrandire