Solo gli israeliani possono capire

Nessun altro paese al mondo avrebbe accettato un tale accordo, dicono i critici. E hanno ragione

Da un articolo di Herb Keinon

image_2193Bisogna capire qualcosa di ciò che rende Israele unico e diverso se si vuole spiegare il tetro scambio che ha avuto luogo mercoledì. Israele ha scarcerato un assassino di bambini e quattro prigionieri di guerra, oltre a 199 corpi di vari terroristi e infiltrati, in cambio di due bare contenenti le spoglie di due riservisti delle Forze di Difesa israeliane.
L’asimmetria del “baratto” e la possibilità che possa incoraggiare ulteriori sequestri, elevare il “prezzo” che Hamas chiederà per l’ostaggio Gilad Schalit e persino cancellare ogni incentivo che ha il nemico per tenere in vita i prigionieri israeliani: tutto questo non è facilmente spiegabile all’estero. Ministero degli esteri e Forze di Difesa cercano di farlo dicendo che questo scambio mette in luce la differenza che c’è tra Israele e Hezbollah in termini di moralità e di valori, che il Libano e Hezbollah celebrano come un eroe un uomo che sfondò la testa di una bambina di quattro anni contro le rocce, e che i libanesi dovrebbero domandarsi se valessero la pena le devastazioni che Hezbollah ha causato al loro paese per liberare quell’infanticida.
Sono tutti argomenti appropriati, utili per spiegazioni rapide. Ma il motivi per cui Israele ha finito con l’accettare queste condizioni non possono essere spiegati in trenta secondi perché hanno a che fare con la prossima guerra, con ciò che passa per il cuore e la mente di genitori e ufficiali che mandano in guerra i loro ragazzi, e con l’esperienza della Shoà – sì, della Shoà – così profondamente penetrata nella coscienza collettiva israeliana.
Nessun altro paese al mondo avrebbe accettato un tale accordo, dicono i critici. E hanno ragione. Ma nessun altro paese al mondo ha le cicatrici che ha Israele, né la consapevolezza pressoché assoluta che vi saranno altre guerre da combattere in questa stessa generazione, altri sacrifici da fare, e che persone che tutti noi conosciamo e frequentiamo saranno chiamate a fare quei sacrifici.
Non è vero ciò che è stato ripetuto all’infinito mercoledì, e cioè che lo scambio “chiude un capitolo”. Certo, lo chiude per le famiglie Goldwasser e Regev che ora potranno, almeno in qualche misura, andare avanti. E chiude, per l’intero paese, il capitolo chiamato Seconda Guerra in Libano, una guerra combattuta per portare a casa gli ostaggi.
Ma non chiude affatto la guerra tra Israele e Hezbollah. Non è che adesso, chiuso quel capitolo, Israele e Hezbollah ne apriranno un altro fatto di nuove e serene relazioni. Hezbollah non cesserà le sue aggressioni contro Israele ora che il loro eroe Samir Kuntar è tornato in terra libanese, e non le cesseranno neanche se venisse definita la questione delle Fattorie Shebaa. Se anche queste questioni venissero risolte, vi sarebbe sempre quella dei sette villaggi in Galilea che il Libano rivendica. E se anche quel problema trovasse soluzione, ne salterebbe fuori un altro, con Hezbollah sempre pronto a trovare nuovi pretesti. No davvero, non c’è nessun termine con Hezbollah: solo preparativi per il prossimo scontro.
Ed è in quei preparativi che entra in scena lo scambio di mercoledì. È diventato quasi un cliché ripetere che ogni soldato, quando va in battaglia, deve sapere che, se qualcosa dovesse andare storto, il paese farà tutto, ma proprio tutto ciò che è in suo potere pur di riportarlo a casa. Ma lasciamo stare i soldati, non è così che ragionano: la maggior parte dei soldati hanno diciotto vent’anni e vivono ancora con quella sensazione di invulnerabilità tipica dei giovani, come se queste tragedie non potessero mai accadere a loro personalmente. Sono tutti impegnati ad addestrarsi e a combattere, e non saranno più o meno motivati a farlo dallo scambio di mercoledì. Dire che “ogni soldato deve sapere” eccetera va bene sulla carta. Ma sul terreno, sotto le tende, in mezzo ai soldati di fanteria non è questo che conta. Conta molto, invece, per gli ufficiali. Perché gli ufficiali devono avere la fiducia dei loro soldati, devono essere sicuri che, quando vanno in battaglia, i loro soldati li seguono. E per questo hanno bisogno della fiducia dei loro soldati, fiducia che si guadagnano solo se ciò che dicono è assolutamente affidabile.
Per generazioni gli ufficiali hanno ripetuto che le Forze di Difesa israeliane non abbandonano sul campo nessun soldato, vivo o morto. E finché questo principio non viene modificato, gli ufficiali devono essere sicuri che non si tratta solo di parole vuote. Questo è quello che dicono ai loro soldati ed è fondamentale, per i combattimenti futuri, che i loro soldati abbino fiducia nelle loro parole. Ecco perché il capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi è stato uno dei più convinti sostenitori dello scambio, benché sapesse bene – lui più di chiunque altro – i rischi a cui potrebbe esporre i futuri soldati. Ashkenazi ha bisogno della fiducia dei suoi comandanti e quella fiducia può essere guadagnata solo se parole e propositi coincidono, e per generazioni di soldati israeliani le parole hanno ripetuto che nessuno verrà mai abbandonato sul campo di battaglia.
Vi sono coloro che sostengono che il fatto che il paese non abbia saputo per certo che Goldwasser e Regev erano morti finché mercoledì Hezbollah non ha tirato fuori le bare dalle auto indicherebbe un grave insuccesso dell’intelligence israeliana. Ma è un’esagerazione. Da mesi la valutazione nell’apparato della sicurezza e nell’ufficio del primo ministro era che i due ostaggi erano morti. Anzi, quella era stata la valutazione del Corpo Medico dell’esercito sin dal secondo giorno della guerra dell’estate 2006. Ma pochi erano disposti a dirlo ad alta voce, e i mass-media hanno continuato ad alimentare la fiammella della speranza. Quando il governo, poco più di due settimane fa, ha approvato le linee guida per l’accordo, i ministri sapevano che Israele avrebbe barattato per due salme. Eppure ha approvato lo scambio. Ed è esattamente qui che entra in scena il trauma della memoria collettiva della Shoà.
L’ethos israeliano di non abbandonare mai un soldato non serve soltanto per infondere coraggio ai soldati in battaglia. Nasce anche, in non piccola misura, da un senso di responsabilità collettivo legato alla Shoà: il sentimento per cui dovunque degli ebrei si trovino in pericolo, si dovrà fare tutto, ma proprio tutto per cercare di salvarli. Se non altro, perché allora invece fu fatto così poco.
Questo significa che Israele ha avallato l’accordo per Goldwasser e Regev a causa di senso di colpa collettivo sulla Shoà? Naturalmente no. Ma è un dato di fatto che il trauma della Shoà è inciso nella coscienza collettiva del paese, e ne influenza le decisioni. Israele è anche il paese di centinaia di migliaia di sopravvissuti e le loro esperienze – trasmesse a figli e nipoti – hanno plasmato il modo in cui l’opinione pubblica israeliana guarda il mondo. E tra quei sopravvissuti ve ne sono decine di migliaia che hanno avuto molti famigliari uccisi nella Shoà senza sapere dove sono sepolti.
Molti, nei giorni scorsi, hanno detto che un paese normale non avrebbe mai accettato un “baratto” così asimmetrico in cambio di due bare. Ma i paesi normali non hanno migliaia di persone che vivono la loro vita senza avere la minima idea di dove sono sepolti tanti dei loro cari, e che per questo tengono in gran conto una semplice tomba.
È questo il motivo per cui Israele ha avallato lo scambio? Di nuovo, chiaramente no. Ma è certamente vero che questo fa parte della psicologia israeliana, e che è parte del motivo per cui Israele fa qualcosa che sembra incomprensibile a molti che non vivono qui tra noi.

(Da: Jerusalem Post, 17.07.08)

Nella foto in alto: I funerali di Ehud Goldwasser