Spari e pianti, di un genere diverso

Alcune impressioni a proposito di “Waltz with Bashir”, un film “sui generis” sulla storia, la memoria, l’individuo e le relazioni fra questi soggetti

Da un articolo di Uri Klein

image_2122Le discussioni intorno a “Waltz with Bashir”, il film di Ari Folman, saranno sicuramente più veementi quando il film, in concorso al 61esimo Festival del Cinema di Cannes, arriverà in Israele. Ecco alcune delle impressioni iniziali dopo la proiezione per i giornalisti avvenuta.
Senza dubbio “Waltz with Bashir” è un’opera molto interessante e di grande impatto. Non è scevra di problemi, ma questi sono interessanti in quanto illuminano tutti gli anfratti dell’anima israeliana, tentando di mantenere giustizia e integrità parlando dell’individuo e della storia nazionale che forma l’individuo, e del luogo in cui egli cerca di sopravvivere.
Folman chiama il suo film “un documentario animato”. È una definizione molto audace, che apparentemente combina due estremi incompatibili nelle imprese cinematografiche: il reale al suo massimo, e l’immaginario anch’esso al suo massimo. Ma non è forse ogni film – lungometraggio o documentario – una combinazione di questi due estremi? Non sta cercando Folman, con la sua decisione di fare un documentario animato, proprio questa polarità, l’essenza del cinema portata all’estremo limite?
Il protagonista del film è Folman stesso. Dopo essersi incontrato con un amico che parla dell’incubo che ha vissuto facendo il soldato nella guerra del Libano (1982), Folman decide di gestire i propri ricordi di quella guerra, che per la maggior parte erano repressi: non ricorda nemmeno di essere stato a Beirut quando avvenne il massacro di Sabra e Chatila.
Così si imbarca in un viaggio per trovare i ricordi che ha perduto e intervista una serie di compagni d’armi, ed anche Zahava Solomon, che si occupa di ricerca sul trauma con specializzazione nel gestire ricordi repressi o perfino inventati, e il giornalista Ron Ben Yishai.
È difficile immaginare come il film di Folman sarebbe riuscito se egli non avesse deciso – all’ultimo momento, sostiene – di presentarlo in un formato diverso. La sua decisione di trasformare la sua opera in un film animato, in cui tutti i personaggi e tutti gli avvenimenti sono disegnati, è stata un’idea brillante che ha salvato il risultato da gravi pericoli.
Anche così, nella sua forma attuale, “Waltz with Bashir” è uno di quei documentari israeliani personali che abbracciano le sofferenze del cineasta, spesso rendendole più significative di quelle di altri personaggi, e che spesso esprimono uno spiacevole grado di ritrosia, senso di colpa e autocommiserazione.
Si potrebbe inserire “Waltz with Bashir” nella lista delle opere israeliane, cinematografiche e non, della categoria “sparare e piangere”. Tuttavia, quello che poteva essere spiacevole se fosse stato presentato in un film documentario “ordinario” è salvato da questo imbarazzo grazie alla scelta di Folman di usare l’animazione.
Bisogna complimentarsi con David Polonski, il direttore artistico del film, e con Yoni Goodman, direttore dell’animazione. L’animazione, decisamente notevole, crea una distanza tra gli spettatori e gli avvenimenti che il film documenta. Permette a Folman di includere scene che sono ricordate dalle persone intervistate nel film; particolarmente emozionanti sono le sequenze che trattano di Roni Dayyag, un soldato che viene abbandonato dai suoi commilitoni e nuota fino a raggiungere le truppe israeliane, nonché due personaggi chiaramente fittizi (due degli amici di Folman rifiutarono di partecipare al film, quindi sono disegnati in modo diverso da come appaiono in realtà e le loro voci sono fornite dagli attori Miki Leon e Yehezkel Lazarov). Ma più importante di tutto è il senso di alienazione creato dall’animazione, e questo permette al film di prendere forma come opera che tratta dell’essenza stessa della memoria.
Su un piano più vasto, “Waltz with Bashir” documenta il crollo psicologico e l’essenza dello stress post-traumatico che il protagonista (Folman stesso) sperimenta vent’anni dopo gli avvenimenti che lo provocarono.
Folman ha lavorato al film per quattro anni, un periodo di tempo che ha incluso la seconda guerra in Libano (2006), di cui si coglie l’eco senza che venga esplicitamente menzionata.
Crollo psicologico e trauma da battaglia non sono facili da trattare sullo schermo. Ci sono già stati film israeliani, per lo più di fantasia, che hanno cercato di farlo, ma senza successo. In questo senso il risultato di Folman è eccezionale. “Waltz with Bashir” si pone al di là delle categorie di documentario o lungometraggio, in una categoria a se stante.
L’aspetto più problematico del film ha a che fare con il suo trattamento di Sabra e Chatila e con il posto che ha il senso di colpa israeliano nel massacro. Il film di Folman è nello stesso tempo piuttosto duro eppure evasivo nel prendere di petto questo senso di colpa. Presumibilmente, nelle discussioni future l’intero spettro politico, da destra a sinistra, avrà qualcosa da dire a questo proposito.
Sarà anche interessante vedere come il pubblico in Israele reagirà a un lavoro tanto anomalo. Il pubblico a Cannes l’ha seguito con estrema attenzione; alla fine è stato applaudito.
Si spera che questo lavoro, con i suoi risultati considerevoli e i suoi problemi affascinanti, riceva attenzione come un altro mattone nella costruzione del discorso cinematografico in Israele sulla storia e la memoria, l’individuale all’interno del collettivo, e la relazione esistente tra questi soggetti.

(Da: Ha’aretz, 18.05.08)