Termini insoliti nelle condanne internazionali dell’attentato a Gerusalemme: nuova consapevolezza o vecchie manovre?

Intanto il silenzio dell’Autorità Palestinese rivela l'autentica natura del presunto interlocutore di pace

Di Herb Keinon

La bandiera d’Israele proiettata sul municipio di Parigi in segno di solidarietà per l’attentato di domenica scorsa a Gerusalemme

Forse qualcosa inizia a cambiare, almeno in Occidente. Le condanne dell’attentato di domenica a Gerusalemme che sono arrivate da tutto il mondo – ma non del mondo arabo – sembrano un po’ diverse dalle volte precedenti.

Sono scomparsi, nella maggior parte dei casi, gli immediati appelli alla moderazione, le esortazioni a porre fine alla “spirale di violenza”, le allusioni a circostanze in qualche modo attenuanti per il terrorismo palestinese. Come ha detto un diplomatico, le reazioni questa volta sono apparse “più decise” del solito. E vi si leggeva anche una maggiore empatia. Un esempio per tutti, la Porta di Brandeburgo a Berlino illuminata coi colori della bandiera israeliana in segno di solidarietà.

La condanna emessa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite era più o meno un copia-e-incolla della condanna emessa per gli attentati di Capodanno a Istanbul e del mese scorso a Berlino. Dice: “I paesi membri del Consiglio di Sicurezza condannano con la massima fermezza l’attacco terroristico a Gerusalemme dell’8 gennaio 2017 in cui quattro israeliani sono stati uccisi e 15 feriti”, esprimono “le loro più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e al governo d’Israele” e “augurano pronta e completa guarigione a coloro che sono stati feriti”. L’unica vera differenza tra questa dichiarazione e quelle sugli attentati di Berlino e Istanbul è che gli aggettivi “odioso e barbaro” riferiti all’attacco terroristico di Istanbul, e “barbaro e vile” riferiti a quello di Berlino, nella dichiarazione sull’attacco a Gerusalemme sono scomparsi. Ma tant’è. Prosegue comunque il comunicato: “I paesi membri del Consiglio di Sicurezza ribadiscono che il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni costituisce una delle più gravi minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, sottolineano la necessità che i responsabili di questo riprovevole atto di terrorismo siano chiamati a risponderne, ribadiscono che gli atti di terrorismo sono criminali e ingiustificabili indipendentemente da dove, quando e da chi sono commessi e dalla loro motivazione”. Insomma, senza se e senza ma: una condanna piuttosto forte e chiara.

La condanna dell’attentato che il vice primo ministro turco Mehmet Simsek ha dovuto cancellare da Twitter a causa dell’ondata di proteste palestinesi sui social network e sui mass-media tradizionali

Anche l’inviato speciale dell’Onu in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha condannato l’attentato, arrivando persino a identificare l’atto come “perpetrato da un palestinese”. Mladenov, tuttavia, non ce l’ha fatta ad abbandonare i vecchi schemi e ha ripetuto la consueta esortazione a tutti di “fare il possibile per evitare un’ulteriore escalation”. Locuzioni come “evitare un’ulteriore escalation” sono invece completamente assenti, forse per la prima volta, dalle condanne nette e inequivocabili emesse da Washington, da Mosca e dall’Unione Europea.

Persino Mehmet Simsek, il vice primo ministro della Turchia, un paese che non si è particolarmente distinto negli ultimi anni nel condannare gli attacchi terroristici contro Israele, ha denunciato l’attentato postando su Twitter: “Ancora una volta condanniamo un altro spregevole atto di terrorismo, oggi a Gerusalemme. L’umanità merita che le nazioni si uniscano contro il terrorismo, senza scusanti“.

Il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault, il cui paese ospiterà domenica una controversa conferenza sul Medio Oriente a cui Israele si oppone con determinazione, si è detto “molto scioccato” per l’attentato: “Condanno nel modo più forte questo attacco abominevole – ha dichiarato Ayrault – In questi momenti dolorosi la Francia, come sempre, è solidale con Israele ed è al suo fianco nella lotta al terrorismo e per garantire la sicurezza”.

Che succede? Come mai questa volta risposte molto più empatiche rispetto al passato? Secondo fonti diplomatiche, è probabile che vi sia in gioco una combinazione di fattori.

Celebrazione del terrorista a Jabel Mukaber, il suo quartiere di Gerusalemme

Prima di tutto c’è quello che appare come un tentativo di calmare Israele dopo la sua furibonda reazione alla sbilanciata risoluzione adottata il mese scorso dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In secondo luogo, alcune delle reazioni mirano probabilmente a mettere avanti le mani in vista delle imminenti manovre diplomatiche, sicuramente spiacevoli per Israele, che potrebbero emergere nei giorni che rimangono prima del cambio della guardia alla Casa Bianca. Ad esempio, la forte dichiarazione francese è sì legata al fatto che la Francia ha subìto di recente un analogo attentato con il camion di Nizza, ma anche al ruolo che Parigi intende giocare alla fine di questa settimana nella conferenza sul Medio Oriente. Un po’ come dire: “Vedete? Non siamo contro di voi…”

Ma certamente uno dei fattori che sta dietro a queste reazioni è che i paesi che oggi condannano l’attentato contro Israele sono stati essi stessi bersaglio recentemente di attacchi terroristici (fra l’altro, ricevendo immancabile la solidarietà di Israele). E’ difficile per tutti condannare il terrorismo come orribile ovunque, e chiedere che venga condannato quando colpisce all’interno dei propri confini, per poi giudicarlo in qualche modo comprensibile o persino giustificabile quando colpisce in Israele.

Cioè, è difficile per quasi tutti. Alcuni invece possono farlo, come ad esempio l’Autorità Palestinese. Ma non suona molto bene.

(Da: Jerusalem Post, 10.1.17)

Celebrazione dell’attentato di Gerusalemme sulla pagina Facebook “Palestine Now”

Scrive l’editoriale del Jerusalem Post: «Mentre non sappiamo ancora con certezza chi o cosa abbia spinto il terrorista di domenica scorsa a compiere il suo attentato, sappiamo per certo che l’istigazione che si propaga ogni giorno dall’Autorità Palestinese vi ha giocato un ruolo importante. In questo senso, la mancata condanna dell’attentato di Gerusalemme da parte del presidente palestinese Abu Mazen, a più di 36 ore da quando ha avuto luogo, è parte integrante di una cultura di odio, di violenza e di intransigenza. Un “interlocutore di pace” non rimane in silenzio quando dei ragazzi innocenti di vent’anni vengono deliberatamente investiti da un camion mentre sono in gita turistica a Gerusalemme. Un vero interlocutore di pace prende posizione, alza la voce, condanna.

Ma forse è proprio questa la differenza tra Israele e Autorità Palestinese. Dopo i rari casi di terrorismo ebraico – come l’incendio doloso in una casa di Duma nel 2015 che provocò la morte di tre membri della famiglia Dawabshe – tutti gli esponenti israeliani della politica, della cultura, della religione condannano nei termini più duri ed espliciti, l’opinione pubblica si interroga angosciata, la polizia scatena la caccia ai colpevoli. I nostri “interlocutori di pace”, a quanto pare, non riescono a fare nulla di tutyo questo.

È dunque veramente incurabile quest’odio pregiudiziale? Noi continuiamo a sperare di no. Ma in ogni caso dobbiamo farci i conti, e fare tutto quanto è in nostro potere per tutelarci e difenderci da esso. L’approccio “dovremo sempre vivere con la spada in pugno” può essere assai deprimente, ma è anche il più realistico. Fino a quando i nostri cosiddetti “interlocutori di pace” si rifiutano di condannare sanguinari attentati terroristici come questo, dobbiamo prendere atto della realtà in cui viviamo.» (Da: Jerusalem Post, 10.1.17)