Tribunali e sicurezza

L’attentato a Shuafat conferma che anche la Corte Suprema può sbagliare sui rischi di vita degli israeliani

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1979L’agente della polizia di frontiera israeliana Rami Zoari, 20 anni, è stato ucciso, e la collega che era in servizio con lui è stata gravemente ferita, giovedì notte in un agguato palestinese a un posto di blocco che funzionava a notte fonda contro il parare dei comandi. Ciò che è accaduto ai due giovani è stato, per usare le parole degli ufficiali della polizia di frontiera, “un disastro annunciato”. Le due vittime sono state descritte come “bersagli fissi”.
L’unico motivo per cui i due agenti si trovavano là a notte fonda, secondo il capo della polizia di Gerusalemme Aharon Franco e l’ispettore generale David Cohen, era una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia a cui la polizia non poteva far altro che conformarsi. Il posto di blocco in questione è il più piccolo e più vulnerabile di due posti di blocco che si trovano a Shuafat (Gerusalemme nord), ed è classificato solo per il passaggio di pedoni. Gestisce meno traffico del posto di blocco più grande, a 200 metri di distanza, dove le guardie sono protette da barriere di cemento e stretti corridoi di avvicinamento che permettono il passaggio solo in fila indiana.
Senza questi posti di blocco, aggressori come quelli che hanno perpetrato gli ultimi attentati potrebbero liberamente entrare a Gerusalemme ed anche proseguire oltre.
La polizia israeliana voleva incanalare tutto il movimento dopo il tramonto verso il valico maggiore e meglio attrezzato. Ma la Corte Suprema, nella sua funzione di Alta Corte di Giustizia, preoccupata per la qualità della vita dei residenti palestinesi di Shuafat, ha ordinato che anche l’accesso più piccolo fra Shuafat e Givat Ze’ev restasse aperto 24 ore su 24. “Fosse dipeso da me – ha dichiarato Aharon Franco – quel passaggio sarebbe rimasto chiuso. Ma la Corte Suprema ha imposto l’apertura”.
La polizia e le Forze di Difesa israeliane sono formate da personale professionale il cui giudizio e la cui esperienza dovrebbero fornire le linee guida per le decisioni delle autorità. Quelle autorità, a loro volta, presumibilmente preoccupate per la sicurezza di tutti i cittadini israeliani come ogni altra branca del governo, non dovrebbero funzionare come degli osservatori Onu distaccati e indifferenti. Il che non significa che le Corti debbano automaticamente accettare tutto ciò che raccomanda l’establishment della difesa. Significa però che andrebbe esercitata la massima cautela quando quelle raccomandazioni vengono ignorate, nel momento in cui la Corte cerca di bilanciare le necessità della sicurezza con l’imperativo della “proporzionalità”.
L’argomento giuridico ricorrente è che le misure necessarie per ridurre al minimo i gravi rischi evocati dalle autorità della difesa potrebbero causare “strappi sproporzionati” al “tessuto di vita” della popolazione araba. Tuttavia non esistono strumenti esatti e oggettivi per misurare questa “proporzionalità”, e troppo spesso le sentenze delle Corti israeliane, motivate da ragioni umanitarie, hanno sortito effetti devastanti.
Nel 2004, ad esempio, la Corte impedì alle Forze di Difesa di spianare un edificio sovrastante l’incrocio di Kisufim, sulla strada per Gush Katif (nella striscia di Gaza). Quell’edificio divenne postazione privilegiata di cecchini palestinesi e base di partenza per ripetuti attacchi contro veicoli israeliani. Il 2 maggio 2004 ne uscirono dei terroristi di Fatah che bloccarono un’auto guidata da una madre incinta, Tali Hatuel, con a bordo i suoi quattro figli: vennero assassinati tutti, uno per uno, a bruciapelo. I terroristi sparano il “colpo di grazia” persino al feto di otto mesi.
Col che non si vuole sostenere che la Corte sia direttamente risposabile del massacro della famiglia Hatuel, dell’uccisione di giovedì scorso a Shuafat o di altre analoghe atrocità perpetrate nel frattempo. Coloro che ne portano la piena e diretta responsabilità, naturalmente, sono i terroristi e coloro che li mandano, li istigano e li tollerano. Ma le decisioni della Corte Suprema si sono tradotte in fattori che hanno contribuito a rendere possibili delle sciagure che l’apparato della difesa aveva previsto.
Si pone, qui, una cruciale questione di principio: in che misura il sistema giudiziario, che non ha specifiche competenze in materia di sicurezza, può ignorare il parere del sistema difensivo sulle questioni di sicurezza?
Allo stesso modo ci si può domandare se il sistema giudiziario abbia diritto di considerare se stesso come quello in grado di decidere dove esattamente vada posizionato ogni singolo tratto della barriera difensiva (fra Israele e Cisgiordania) indipendentemente da ogni considerazione topografica (cosa che fa regolarmente su ogni ricorso di parte), e se riceva i necessari input di esperti su queste decisioni di vita e di morte.
È evidente che si deve tener conto anche di considerazioni diverse dalla sicurezza, come l’impatto sulla mobilità dei palestinesi. Ed è altrettanto evidente che le Forze di Difesa israeliane cercano di bilanciare i bisogni della sicurezza con la necessità di evitare sofferenze inutili a palestinesi innocenti. Nessuno detiene il monopolio del giudizio migliore su queste scelte di vita o di morte. Ma la forza della democrazia si mostra non solo quando si garantisce al sistema giudiziario il potere di ignorare il potere esecutivo. Si mostra anche quando il sistema giudiziario considera appropriato delimitarsi, scegliendo di agire non come un esecutore ma come un arbitro su questioni di diritto.
L’attentato a Shuafat e altri simili dimostrano che, se è vero che esiste il pericolo che le Forze di Difesa possano sbagliarsi sul versante dei disagi imposti ai palestinesi, è altrettanto vero che la Corte Suprema può sbagliarsi sul versante del rischio di vita che corrono gli israeliani.

(Da: Jerusalem Post, 27.01.08)

Nella foto in alto: I funerali di Rami Zuari