Tutte le parole di Abu Mazen

Abu Mazen parla sempre di due stati, mai di due popoli. Per lui, vi saranno due paesi: uno palestinese e l’altro… pure

Di Gadi Taub

Gadi Taub, autore di questo articolo

Il titolo dell’editoriale di questo giornale (Ha’aretz) dello scorso 29 maggio era: “Ascoltiamo Abu Mazen”. Voglio aderire all’appello. Ascoltiamolo con molta attenzione: è un’ottima idea.

L’editoriale citava queste parole del presidente dell’Autorità Palestinese: “Non esiste voce più forte della voce di una pace giusta e completa, come non esiste voce più forte di quella del diritto di un popolo all’autodeterminazione e alla liberazione dal giogo dell’occupazione. È giunta l’ora di vivere, voi e noi, in pace, armonia, sicurezza e stabilità. L’unico modo per porre fine alla controversia, e alla lotta contro il terrorismo nella regione e nel mondo, è la soluzione a due stati basata sulle linee del giugno 1967, Palestina accanto a Israele. Abbiamo accettato le risoluzioni delle Nazioni Unite, abbiamo riconosciuto lo stato d’Israele e accettato la soluzione a due stati, e anche il mondo ha riconosciuto lo stato palestinese. È giunta l’ora che lo stato d’Israele riconosca il nostro stato e ponga fine all’occupazione. Continuiamo a tendere la nostra mano in pace”.

Queste parole, affermava l’editoriale, esprimono “nei termini più chiari, nitidi e precisi non solo il desiderio di pace del popolo palestinese, ma quello di ogni cittadino israeliano che desidera la pace e che vuole vivere in un paese normale”. E’ proprio così?

La prima cosa che non è chiara, né nitida né precisa è ciò che Abu Mazen intende per “due stati”. Egli infatti, come tutti gli esponenti palestinesi, sta sempre molto attento a usare il termine “due stati” senza mai aggiungere “per due popoli”. Cioè, non ha alcun problema a riconoscere “il diritto di un popolo all’autodeterminazione e alla libertà”, ma si guarda bene dal riconoscere Israele come lo stato in cui si riconosce e identifica il popolo ebraico. Poiché ai suoi occhi gli ebrei non sono affatto un popolo, i due stati cui fa riferimento Abu Mazen sono uno stato nazionale arabo-palestinese e uno stato chiamato Israele nel quale affluiranno “i profughi” (in realtà, i nipoti e pronipoti dei profughi). Per cui, a ovest del fiume Giordano vi saranno due paesi: uno degli arabi palestinesi e l’altro… pure.

Murale nel villaggio di Akaba, in Cisgiordania. La propaganda palestinese rappresenta sempre la mappa della rivendicazione su tutto il paese cancellando Israele dalla carta geografica

Abu Mazen sa per esperienza che basta imbellettare questa posizione ostile con un po’ di parole che suonano amichevoli – pace, armonia, linee del giugno ’67 ecc. – perché tutti i benintenzionati, israeliani e non, si precipitino a interpretarle secondo i loro propri desideri, ignorando tutto ciò che egli dice e lasciandolo sorvolare sul fatto che i palestinesi hanno rifiutato ogni seria e concreta proposta “a due stati” che è gli è stata messa davanti. Hanno voltato le spalle a Ehud Barak, ai parametri Bill Clinton, all’offerta di Ehud Olmert, agli sforzi di Condoleezza Rice, persino alle offerte di John Kerry e Barack Obama: l’ultima proposta che aveva dato ai palestinesi l’opportunità di dimostrare che loro perseguono davvero la pace e l’armonia, e che il vero ostacolo alla pace è Israele sotto il governo di Benjamin Netanyahu. Persino Yossi Beilin esortò Abu Mazen a cambiare strada e accettare la equa cornice per un accordo proposta da Kerry. Non l’ha ancor fatto.

Ecco perché dovremmo accogliere la raccomandazione dell’editoriale di Ha’aretz e dare veramente ascolto ad Abu Mazen. Il mese scorso, ad esempio, durante la sua visita in India, ha tenuto un discorso in occasione dei 69 anni dalla Nakba. La stampa benintenzionata non ha fatto cenno a quel discorso. Nessuno ha detto che dovremmo ascoltarlo e prestargli attenzione. Peccato perché, se spesso le parole di Abu Mazen sulla pace non sono chiare, nitide e precise bensì piuttosto fuorvianti, le sue ripetute dichiarazioni circa il sacrosanto “diritto al ritorno” e i martiri terroristi sono in realtà sorprendentemente chiare. Nel suo discorso in India Abu Mazen ha ripetuto che accetterebbe “uno stato indipendente con piena sovranità entro i confini del 4 giugno 1967 con Gerusalemme est come sua capitale”, e ha subito aggiunto: “La pace è la nostra strategia, ma non a qualunque prezzo”. A quanto pare, riconoscere due stati per due popoli non fa parte del prezzo che è disposto a pagare. Così come, a suo dire, la Nakba – un’ingiustizia che, stando alle sue parole, “è cominciata oltre cento anni fa con la comparsa del sionista e la sua falsa visione” – non è mai finita: la Nakba continua e l’unico modo per risolvere l’ingiustizia è quello di far tornare indietro le lancette della storia. La Gran Bretagna dovrebbe scusarsi coi palestinesi per la Dichiarazione di Balfour, ha proclamato Abu Mazem (cioè per aver riconosciuto il diritto degli ebrei ad avere una sede nazionale all’interno della Terra d’Israele), e tutti quanti dobbiamo riconoscere il “diritto al ritorno” dei (discendenti dei) profughi. “Il nostro popolo non lascerà cadere la questione della Nakba fino a quando non verranno riconosciuti tutti i suoi legittimi diritti nazionali, senza eccezione, e in primo luogo il diritto di ritorno”. Queste le parole di Abu Mazen.

Siccome vengono tradotte e divulgate ben poche dichiarazioni dei palestinesi, e in modo altamente selettivamente, i lettori ebrei e occidentali in genere sono portati erroneamente a pensare che riconoscere il “diritto di ritorno” sia una questione simbolica che possa essere risolta accettando di accogliere in Israele un limitato numero di autentici profughi. Ma non è affatto questo ciò che intende Abu Mazen. Anzi, egli pensa di non essere autorizzato a rinunciare al “diritto” a nome dei “profughi” (e di tutti i loro discendenti). “Il diritto di ritorno – ha spiegato in passato – è una decisione personale. Cosa vuol dire? Vuol dire che né l’Autorità Palestinese, né lo stato [palestinese], né l’Olp, né Abu Mazen [cioè, lui stesso] né alcun altro leader arabo ha il diritto di derubare qualcuno del diritto al ritorno”.

Pertanto, quello che occorre è riconoscere il principio secondo cui ciascun “profugo” (o discendente) sceglie individualmente fra compenso e “ritorno” sulla base della risoluzione Onu 194 del 1948, a cui Abu Mazen ha ripetutamente giurato fedeltà. Domanda: quale “profugo” non si avvarrà di questa porta spalancata per scappare dall’inferno siriano, dall’oppressione libanese, dalla miseria in Giordania per passare direttamente nel primo mondo del terribile apartheid sionista?

Se cominciassimo davvero ad ascoltare Abu Mazen, sistematicamente e nel tempo, scopriremmo che egli non si sta preparando a fare alcun compromesso. Al contrario, fornisce incentivi economici al terrorismo sotto forma di vitalizi ai terroristi detenuti e alle famiglie dei terroristi, elogia i “martiri” e intitola scuole in loro nome, dà libero corso a forme di aggressivo antisemitismo nel sistema scolastico e nei suoi mass-media. Pertanto, invece di cimentarsi in citazioni parziali accuratamente selezionate per costruire un castello di fake news, faremmo meglio a interiorizzare quello che dovrebbe essere chiaro fin dall’inizio: che chiunque si batta per porre fine all’occupazione e voglia proporsi come un’alternativa realistica al governo di Netanyahu, non venga a dire che ha in tasca la ricetta per la pace: la stragrande maggioranza degli elettori israeliani non se la beve, e giustamente.

L’unica alternativa realistica all’attuale politica del governo Netanyahu è gestire il conflitto verso la prospettiva della separazione, contrapposta all’espansione strisciante dell’impresa di insediamento che offre la destra. Queste sono le due alternative, e dobbiamo scegliere tra loro il male minore. Senza autoinganni e illusioni.

(Da: Ha’aretz, 19.6.17)

Imad Hamato (preside delle scuole Al-Azhar di Gaza su nomina del presidente Abu Mazen) lo scorso 12 maggio alla tv ufficiale dell’Autorità Palestinese (per scorrere la galleria d’immagini, cliccare sulla prima e proseguire cliccando sul tasto “freccia a destra”):