Un giuramento legittimo

C’è chi sostiene che esista una contraddizione intrinseca fra “ebraico” e “democratico”.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2957Come previsto, domenica il governo israeliano ha approvato una proposta di emendamento alla Legge sugli Ingressi e sulla Cittadinanza volto a sottolineare lo status di Israele come paese sia “ebraico” che “democratico”. Se l’emendamento verrà convertito in legge, ai cittadini non ebrei che chiedono di naturalizzarsi israeliani, come è il caso ad esempio dei palestinesi di Cisgiordania che sposano un cittadino arabo israeliano e fanno domanda di cittadinanza israeliana, verrà chiesto di prestare un giuramento di fedeltà non più solo – come avviene oggi – allo “stato d’Israele”, bensì più esplicitamente allo stato d’Israele in quanto “ebraico e democratico”.
C’è chi sostiene che esista una contraddizione intrinseca fra “ebraico” e “democratico”. Ad esempio, il parlamentare arabo israeliano Ahmad Tibi (lista Ra’am-Ta’al) dice che l’emendamento servirebbe per radicare nella legge una presunta subordinazione dei cittadini arabi d’Israele. Uno stato, dice, non può essere al contempo ebraico e democratico. I valori democratici, sostengono Tibi e altri israeliani “post-sionisti”, esigono la creazione di uno stato che sia “per tutti i suoi cittadini” senza alcuna distinzione di gruppi particolari. L’Agenzia Ebraica, la Legge del Ritorno e tutti i simboli nazionali d’Israele come l’inno e la bandiera dovrebbero essere smantellati per fare posto a un vero stato democratico che dia eguale espressione a tutte le più disparate culture, religioni e identità nazionali.
Noi, invece, siamo convinti che non vi sia nessuna contraddizione intrinseca fra i due concetti. Israele venne creato da ebrei per gli ebrei, all’ombra della Shoà, che costituì la più atroce e concreta manifestazione delle terribili conseguenze che può avere l’assenza di una sovranità ebraica. Il moderno stato sovrano d’Israele costituisce il frutto di millenni di struggente attesa ebraica e di esilio. Il popolo ebraico è unito da comunanza di religione, cultura, storia e identità nazionale. Come altri popoli, compresi i palestinesi e quasi due dozzine di paesi arabi, gli ebrei hanno diritto ad autodeterminarsi in un loro stato sovrano che protegga il loro peculiare patrimonio e le loro caratteristiche nazionali specifiche.
Ecco perché i palestinesi – che un giorno, con il sostegno di Israele, avranno il loro stato sovrano – devono abbandonare la pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno” dei profughi arabi che scelsero o furono costretti a lasciare Israele durante la guerra d’indipendenza del 1948. Se tale “diritto al ritorno” (non riconosciuto a nessun’altra comunità di profughi nel mondo, a cominciare dagli ebrei cacciati dai paesi arabi) venisse applicato, si tradurrebbe nella fine di Israele come stato ebraico (e probabilmente anche come stato democratico) attraverso lo smantellamento dell’attuale maggioranza ebraica.
Al contempo, il compito della democrazia è quello di garantire che, mentre si realizza la sovranità politica del popolo ebraico, vengano scrupolosamente tutelati i diritti delle minoranze non-ebraiche e non-sioniste: la libertà di parola e di stampa, la libertà di religione e il diritto alla rappresentanza politica, di cui appunto godono Tibi e gli altri parlamentari arabi israeliani.
Se, da una parte, la multipla identità degli ebrei – gruppo religioso, nazione e gruppo etnico – e la loro connessione come comunità nazionale a un particolare territorio ne fa un popolo a sé stante fra gli altri popoli, dall’altra parte la loro rivendicazione di autogoverno politico non ha invece nulla di eccezionale. Grecia, Armenia e Irlanda sono tutte nazioni che si sono dotate di leggi di rimpatrio che garantiscono diritti automatici ai rispettivi popoli. In Germania, grazie all’articolo 116 della Legge Fondamentale, centinaia di migliaia di profughi tedeschi per origini etniche o semplicemente appartenenti alla cultura tedesca si sono visti riconoscere automaticamente diritti di cittadinanza. L’obiettivo di queste legislazioni è quello di preservare le identità nazionali peculiari di quegli stati. In effetti, è difficile immaginare uno stato nazionale senza una precisa cultura prevalente. Cos’altro unisce gli esseri umani, cosa garantisce loro identità e finalità, cosa dà loro un senso di appartenenza? Come potrebbero altrimenti dare espressione a valori universalistici, come la lotta contro la povertà nel mondo, se non attraverso la cornice particolare dello stato nazionale?
Solo gli Stati Uniti si sono avvicinati a un modello di nazione senza una singola cultura predominante. Ma anche là, ai potenziali cittadini viene chiesto di prestare giuramento di fedeltà. Come parte del processo di naturalizzazione, viene chiesto loro di “rinunciare e abiurare ad ogni fedeltà e lealtà verso qualunque entità straniera” e di “sostenere e difendere la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti contro tutti i loro nemici”.
Richiedere ai cittadini in corso di naturalizzazione di giurare fedeltà a uno stato “ebraico e democratico” è solo un piccolo passo in una più ampia campagna volta a garantire il riconoscimento di Israele come patria nazionale del popolo ebraico. E non è tanto una misura per i potenziali cittadini – in fondo, la sincerità non può essere imposta – quanto una dichiarazione d’intenti da parte di ebrei che sono tornati alla loro patria storica per restarvi e autogovernarsi.

(Da: Jerusalem Post, 8.10.10)

Nelle immagini in alto: La menorah (candelabro ebraico) rappresentata sull’Arco di Tito mentre è portata in trionfo a Roma con gli arredi saccheggiati al Tempio di Gerusalemme dai soldati romani nel 70 e.v. è la stessa che dal 1948 figura sull’emblema ufficiale dello Stato di Israele