Un microcosmo di armonia

Su Il Quartetto Rosendorf di Nathan Shaham

Di Claudia Rosenzweig

image_466Un microcosmo di armonia.
Su Il Quartetto Rosendorf di Nathan Shaham.
Breve conversazione con l’autore.
Di Claudia Rosenzweig

La casa editrice Giuntina ha inaugurato una nuova collana, Israeliana, con un romanzo di Nathan Shaham, Il Quartetto Rosendorf, nella traduzione di Shulim Vogelmann. Questi è già noto ai lettori italiani per il suo libro autobiografico Mentre la città bruciava (Giuntina 2004) e con questa collana realizza il progetto portato avanti con entusiasmo di proporre al pubblico italiano opere di scrittori israeliani ancora poco conosciuti in Italia. Il Quartetto Rosendorf in realtà viene a colmare una lacuna nel panorama narrativo della letteratura israeliana in traduzione italiana. Già tradotto in molte altre lingue, questa è una delle opere più significative di Nathan Shaham, che per questo libro ha ricevuto il Premio Bialik.
Nato a Tel Aviv nel 1925 da genitori russi (il padre era lo scrittore Eliezer Steinman), dal 1945 Shaham è membro del kibbutz di Beit Alfa e da anni lavora come redattore della casa editrice Hakibbutz Hameuchad, una delle più prestigiose in Israele.
Il Quartetto Rosendorf può essere letto principalmente secondo due chiavi di lettura. Di fatto è la storia di un gruppo di ebrei tedeschi arrivati nella Palestina del Mandato Britannico negli anni ’30, in fuga dalla Germania dove Hitler è ormai chiaramente il Führer indiscusso di un nuovo ordine, nel quale gli ebrei non possono esistere. È la storia del loro faticoso inserimento nella cultura dei sionisti in Eretz Israel, prima della fondazione dello Stato Ebraico. È una tragica storia d’amore tra gli ebrei e la cultura europea. A chi scrive sembra inoltre la versione letteraria delle testimonianze raccolte da Tom Segev nel suo studio Il settimo milione (Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori). È, secondo il critico letterario Gershon Shaked, un romanzo che mostra «l’altro lato della medaglia sionista», un romanzo quindi anti-ideologico.
Il libro è composto di cinque diari: di Rosendorf, il primo volino; Friedman, il secondo violino, Staubenfeld, la viola, Litowsky, il violoncello e Loewenthal, lo scrittore. In una narrazione in prima persona, leggiamo pertanto la stessa vicenda raccontata da punti di vista diversi, ognuno dei quali rispecchia il carattere di ciascun personaggio. È così che Rosendorf descrive il suo viaggio dalla Germania alla Palestina, il suo arrivo a Tel-Aviv, il suo bisogno di creare un Quartetto per continuare a sopravvivere. Costretto a separarsi dalla moglie ‘ariana’ e dalla figlia, e a vivere fino in fondo il suo ebraismo («Siamo gente senza pace nello spazio del nostro destino», p. 12), egli considera la Palestina «un ottimo rifugio momentaneo» (p. 14) e, come lo scrittore Loewenthal e molti altri tedeschi, non si sente un nuovo immigrato, bensì un uomo in esilio, impermeabile all’ideologia sionista come a qualsiasi altra. È per questo che il Quartetto che decide di formare ha per lui la missione di una piccola società, di un «microcosmo» (il termine ritorna spesso nel romanzo), poiché «la musica è un clima. […] È la patria dei senza patria» (p. 90). Il secondo violino è un personaggio romantico, fervente sionista, idealista e generoso. La viola è Eva Staubenfeld, una donna bellissima e ferita, disincantata su tutto, il cui fascino irresistibile risiede proprio nel contrasto tra la sua dedizione assolta, quasi religiosa, alla musica, e la sua vita, dove la sofferenza ha distrutto ogni menzogna, ogni remora, ogni traccia di morale borghese. Litowsky è il violoncellista: attraverso la sua narrazione, la realtà storica fa il suo ingresso nel racconto in modo violento: nel periodo del Mandato Britannico, alla vigilia della II Guerra Mondiale, Litowsky si trova coinvolto nei contrasti tra la Haganà e la Banda Stern. L’ultimo diario è quello di Egon Loewenthal, scrittore tedesco, scettico di fronte all’ideologia sionista, incapace di incominciare una nuova vita lontano dal mondo culturale tedesco. Scrive: «Sono salito su una nave e sono partito per la terra dei miei avi, ma l’aria di cui ho bisogno è impregnata di voci tedesche». E ancora: “Qualcuno ha detto: «L’unico tesori che gli ebrei hanno trafugato dalla Germania è la letteratura tedesca.» Ma qui in Terra d’Israele è una moneta che non ha corso.” (p. 275) Ai suoi occhi tutta l’attività sionista è problematica, dal momento che nei giovani egli assiste al distacco netto dalla cultura europea: «La storia non conosce pietà. Come Dio, essa fa ricadere i peccati dei padri sui figli fino alla quarta generazione. Un piccolo errore storico si può sviluppare in dimensioni enormi. Così è per questo insieme di esiliati sull’orlo di un vulcano. Così è per la resurrezione della lingua ebraica, che separerà un’intera generazione di ebrei dalle lingue europee nelle quali sono nate le idee innovative della scienza moderna, della nuova letteratura e del pensiero politico.» (p. 279) «Mi sento come un viaggiatore clandestino che è stato scoperto e fatto scendere su un’isola deserta.[…] Non saprò mai scrivere su questa terra che mi ha dato rifugio, perché non vi metterò mai radici.» (p. 282). Loewenthal, alter ego dello scrittore, intraprenderà il progetto di scrivere un romanzo sul Quartetto d’archi, il cui contenuto sarà «vite spezzate alla ricerca di un’armonia. Quattro personaggi di carattere diverso consacrati alla creazione di un’unità al di fuori del tempo e dello spazio. Desiderio di trascendenza attraverso l’astrazione.» (p. 291). Le sue pagine sono ricchissime di spunti di riflessione sul rapporto con la lingua, in particolare con il tedesco, lingua madre e lingua ‘matrigna’, e sul senso della scrittura in un momento storico segnato dalla tragedia: «Dopo il crollo totale dei valori della civiltà occidentale, non c’è ragione di pubblicare romanzi lineari con una struttura architettonica perfetta, che è la migliore espressione della fede in questi valori. Il lettore colto dei nostri tempi non si arrabbierà con me se gli offritò dei cocci rotti.» (pp. 358-359).
Questo romanzo è in realtà costruito secondo una struttura solida, nel quale la narrazione di ogni diario si incastra a perfezione con quella successiva. Lo stile è realistico e scorrevole. In generale può essere definito il punto di arrivo di uno scrittore di grande talento, padrone di una scrittura forte e misurata a un tempo.
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Il Quartetto Rosendorf è stato pubblicato nel 1987. L’autore è considerato un rappresentante classico dell’ideologia sionista e socialista che ha costituito per molti anni il punto di riferimento della vita culturale, sociale ed economica dello Stato di Israele. Nel 1968 aveva già pubblicato un libro sugli immigrati tedeschi e il loro inserimento nella vita del kibbutz, Guf rishon rabim (Prima persona plurale). Il Quartetto Rosendorf è soprattutto un romanzo su Tel Aviv, «la città sciatta costruita sulla sabbia» (p. 8), sul suo mare e sulla sua luce, sugli ebrei che non volevano o non riuscivano a rinunciare alla vita cittadina, ai caffé, ai concerti, e tentavano di ricostruire in Medio Oriente un tipo di vita simile a quella europea. Resta la domanda del perché un autore che si era considerato uno shaliach-tzibbur, un rappresentante della sua società in tutto e per tutto, abbia scritto un romanzo così delicato, personale, realistico, assolutamente non ideologico. Ne abbiamo discusso brevemente con Nathan Shaham:
C. R.: Il Quartetto Rosendorf è un romanzo sugli anni ’30, sull’immigrazione degli ebrei dalla Germania nazista, ma è stato pubblicato solo nel 1987. Cosa l’ha portata a ripercorre un periodo storico del passato?
N. S.: Ho scritto questo libro per molti anni. Esso ha rappresentato una maturazione lenta. Sin da quand’ero piccolo ero un appassionato di musica e ho suonato in diversi quartetti e anche in un’orchestra. Ho letto molto sulla musica e ho capito che è molto difficile parlarne. Ciò che è possibile è invece parlare dei musicisti. Su questo esiste molta letteratura. Quello che volevo era scrivere su un gruppo di persone che si ritrovano per suonare della musica insieme, senza competizione.
C. R.: Per lei dunque questo è prima di tutto un libro sulla musica, e non sul sionismo.
N. S.: Già nel 1967 ho visto che la guerra che stavamo vincendo era in realtà quella più pericolosa, l’unica guerra che abbiamo veramente perso. No, quello che volevo fare con questo romanzo era descrivere un microcosmo di armonia. È come se avessi dialogato con La sonata a Kreutzer di Tolstoy, e Il Doktor Faustus di Thomas Mann, e anche altre sue opere, Tonio Kröger e I Buddenbrook: in queste opere viene descritto un mondo borghese in frantumi, e il demone nella lampada è spesso l’artista. È lui che distrugge l’ordine borghese. Il sentimento non ha misura e la musica viene descritta in tutto il suo potere distuttivo e immorale. Io volevo fare esattamente l’opposto, e cioè mostrare come la musica possa riprodurre un mondo di armonia, nel quale il sentimento viene come distillato e dove tutto è noto e controllato: il quartetto crea un mondo di collaborazione, nel quale non c’è posto per competizione e rivalità. L’unica possibilità che è data a questo mondo di sopravvivere è la collaborazione, la società. E la musica è per me ciò che genera questa unione, questa società in nuce.
C. R.: Nel 2001 lei ha pubblicato un romanzo dal titolo L’ombra di Rosendorf (Tzilo shel Rosendorf). È una continuazione de Il Quartetto Rosendorf?
N. S.: In un certo senso sì. È la storia del ritorno in Germania di Loewenthal, lo scrittore. Di fatto è un libro triste, un libro sull’impossibilità per gli ebrei di tornare in Germania e di riprendere il posto che avevano nella cultura tedesca prima di Hitler. Un percorso come quello del critico Marcel Reich-Ranicki è stato molto difficile ed è stato possibile solo a caro prezzo.
C. R.: Come curatore di tanti volumi della casa editrice HaKibbutz Hameuchad lei è anche un attento critico della letteratura israeliana contemporanea. Come le sembra l’attuale panorama letterario?
N. S.: Sì, leggo infatti molti libri di scrittori giovani e in generale quello che osservo è che in questi ultimi anni era dominante una corrente letteraria che aveva deciso che abbassando il livello della lingua ci si sarebbe avvicinati al popolo, alla realtà israeliana. Questa corrente sta passando e io personalmente ritengo che la letteratura non possa essere solo realistica, abbia bensì il compito di guardare più lontano, di arricchire la lingua, di allargare la visione del mondo di chi legge. Nonostante quanto si dice riguardo al potere della televisione e dei computer, per me la letteratura, come la musica, ha qualcosa di speciale. Se così non fosse sarebbe già scomparsa. Ha una responsabilità sociale e credo che una lingua letteraria elevata, ricca del rapporto con tutte le sue fonti, possa unire e migliorare la nostra società.
[Claudia Rosenzweig, Gerusalemme, novembre 2004]