Un negoziato onesto e coraggioso

Nel 1997 Germania e Repubblica Ceca hanno firmato una dichiarazione di riconciliazione che affronta di petto la questione dei profughi tedeschi dai Sudeti

M. Paganoni per NES n. 5, anno 16 - maggio 2004

image_197Lo scalpore suscitato da un paio di frasi della lettera ufficiale che il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha consegnato al primo ministro israeliano Ariel Sharon lo scorso 14 aprile, costringe a tornare sul merito delle questioni. E a suggerire uno sforzo di “onestà negoziale”.
Scrive il presidente Bush che, “nel quadro di una composizione di pace definitiva, Israele dovrà avere confini sicuri e riconosciuti, che dovranno emergere dal negoziato fra le parti come previsto dalle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza”. E aggiunge: “Non è realistico aspettarsi che il risultato dei negoziati per lo status definitivo sia un ritorno totale e completo alle linee d’armistizio del 1949”. Una considerazione, si prende la briga di chiosare il presidente americano, che è condivisa “da tutti i precedenti tentativi di negoziare una soluzione definitiva”.
In effetti tutte le proposte di pace, dalla risoluzione Onu 242 del 1967 agli accordi di Oslo degli anni ‘90, fino alle proposte di Camp David del luglio 2000, ai punti di Clinton del dicembre 2000 e alle offerte di Taba del gennaio 2001, si basavano sul principio che il futuro confine fra Israele e vicini arabi non è già stabilito. Lo stesso accordo “virtuale” di Ginevra firmato da private personalità israeliane e palestinesi lo scorso dicembre, la proposta di compromesso in assoluto più avanzata che sia mai stata formulata, prevede spostamenti del confine rispetto alla linea verde del 1949-67. D’altra parte, come potrebbero le parti concordare un futuro confine che risponda quanto più possibile alle rispettive esigenze (sicurezza, omogeneità demografica, continuità territoriale ecc.) se quel confine fosse già stabilito, con il pennarello verde, su tutte le mappe politiche e diplomatiche? A che servirebbe dunque il negoziato? Sostenere che esattamente la linea verde, quella che tagliava a metà città e villaggi e creava situazioni indifendibili, debba essere il confine “fra Israele e Palestina”, ancor prima che un errore storico e un non-starter politico costituisce dunque un non-senso logico. Averlo ripetuto per decenni, in ogni sede politica e giornalistica, non l’ha reso meno insensato.
Scrive poi il presidente americano (ed è il secondo punto) che “una soluzione concordata, equa e realistica della questione dei profughi palestinesi, nel quadro di un accordo sullo status definitivo, dovrà essere chiaramente cercata nella creazione di uno stato palestinese e nell’insediamento di profughi palestinesi in esso anziché in Israele”.
A ben vedere si tratta di un’altra considerazione di assoluto buon senso, in perfetta sintonia con quanto dichiarato dal presidente Bill Clinton il 7 gennaio 2001 quando disse che la pretesa di un ingresso in massa di palestinesi all’interno di Israele “annullerebbe la ragione stessa per creare uno stato palestinese”. Ma si tocca, qui, il famoso “diritto al ritorno”, nel cui culto sono state allevate intere generazioni di irredentisti arabi e palestinesi. E dunque anche questa ovvia affermazione ha suscitato le ire del mondo politico arabo, e di altri che su quelle posizioni amano appiattirsi.
Strano “diritto”, però, quello al “ritorno” dei profughi palestinesi e di tutti i loro discendenti (molti dei quali non hanno mai messo piede in terra di Palestina in tutta la loro vita) a stabilirsi non nel loro futuro stato indipendente (come sancisce, ad esempio, per gli ebrei la Legge del Ritorno israeliana), bensì all’interno dello stato ebraico. Strano “diritto al ritorno”, mai riconosciuto né in linea di principio né di fatto ai milioni di musulmani e indù profughi da India e Pakistan, ai vietnamiti profughi dal Vietnam del Sud, agli italiani profughi da Istria e Dalmazia. E nemmeno, naturalmente, ai milioni di ebrei, e loro discendenti, trasferiti in Israele dai paesi d’Europa, del Medio Oriente e del resto del mondo.
Ma esiste un precedente storico ancora più suggestivo, che merita d’essere ricordato.
Nel 1938 vivevano nei Sudeti tre milioni di persone di lingua e cultura tedesca. Adolf Hitler se ne servì come pretesto per aggredire la Cecoslovacchia e, in definitiva, per scatenare la guerra. Una delle conseguenze della guerra d’aggressione tedesca fu che quei tedeschi vennero alla fine espulsi senza tanti complimenti dalle terre che avevano abitato per generazioni, e dovettero reinsediarsi in Germania.
Anche il dramma dei profughi palestinesi ebbe origine da una guerra d’aggressione, quella scatenata dagli stati arabi che si servirono della questione palestinese per rifiutare la nascita dello stato ebraico d’Israele e dello stesso stato arabo palestinese previsti dal piano di spartizione dell’Onu del 1947.
Il precedente è tanto più interessante perché ci offre anche un’idea di come quelle due nazioni, entrambe oggi nell’Unione Europea, abbiano fatto i conti con il loro doloroso passato. Nel gennaio 1997 Germania e Repubblica Ceca hanno firmato una dichiarazione “di riconciliazione” che affronta di petto la questione. E’ un documento di grande rilievo, che merita d’essere letto con attenzione. In esso le due parti si dichiarano “convinte che le ingiustizie inflitte nel passato non possono essere cancellate, ma soltanto nel migliore dei casi alleviate, e che nel farlo non si devono produrre nuove ingiustizie”. Entrambe le parti si dichiarano “consapevoli che il cammino comune verso il futuro richiede una chiara presa di posizione circa il proprio passato, che non manchi di riconoscere cause ed effetti della sequenza degli eventi. La parte tedesca – continua il documento – riconosce la responsabilità della Germania per il suo ruolo nello sviluppo storico che ha condotto allo smembramento forzato e all’occupazione della repubblica cecoslovacca. Essa esprime rincrescimento per le sofferenze e le ingiustizie inflitte, ed è consapevole del fatto che la politica di violenza verso la popolazione ceca ha contribuito a preparare il terreno, nel dopoguerra, per la fuga, l’espulsione forzata e il reinsediamento forzoso. La parte ceca esprime rincrescimento per il fatto che, con l’espulsione dei tedeschi dei Sudeti dopo la guerra e con gli espropri e la privazione della cittadinanza, sono state inflitte molte sofferenze e ingiustizie a gente innocente. Entrambe le parti concordano che le ingiustizie inflitte nel passato appartengono al passato e pertanto orienteranno i loro rapporti verso il futuro. Proprio perché sono consapevoli dei tragici capitoli della loro storia, esse sono decise a continuare a dare priorità al dialogo e all’accordo reciproco nello sviluppo dei loro rapporti. Pertanto entrambe le parti dichiarano che non graveranno le loro relazioni con questioni politiche e legali che scaturiscono dal passato”.
Si notino bene i particolari. La parte tedesca (quella che ha patito l’espulsione, ma che in realtà con la propria aggressione aveva scatenato “la sequenza di cause ed effetti”) riconosce d’aver “contribuito a preparare il terreno” per l’esodo forzato. La parte ceca (quella che ha cacciato i tedeschi, ma dopo aver subito un’aggressione che mirava al suo “smembramento e occupazione”) riconosce d’aver inflitto “molte sofferenze e ingiustizie”, ma – giustamente – non si accolla la “responsabilità nello sviluppo storico” che creò quella tragica situazione. Entrambe le parti, infine, dichiarano che il passato non può essere disfatto (“cannot be undone”, nel teso inglese), col che la Germania riconosce che il dato di fatto dell’espulsione dei profughi è irrevocabile.
Si tratta di un documento di altissimo livello, la cui stesura ha richiesto una notevole dose di onestà e coraggio. Per questo vorremmo consigliarne la lettura a chi sostiene che Israele dovrebbe “come minimo ammettere la propria responsabilità nell’origine del dramma dei profughi palestinesi”, per poi procedere a “disfare” il passato invadendo Israele con i discendenti dei profughi, non essendo riusciti a farlo con eserciti e terroristi.