Un palestinese anti-palestinese?

"Subito accusato di retorica sionista quando ho detto che resistenza non vuol dire far strage di civili".

Di Murad Bustami

image_3002Alcuni mesi fa ho partecipato a un convegno organizzato dalla Società Accademica Palestinese per gli Affari Internazionali, intitolato “L’agenda politica di Hamas 2010”. Si teneva in una sede a pochi metri dalla tomba di Yasser Arafat e dall’ufficio dell’attuale presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Figure indipendenti di diversa estrazione accademica vi presero la parola cercando di analizzare il discorso politico del movimento Hamas e di gettare luce sulla crescente spaccatura fra movimento di liberazione palestinese e processo di pace.
Dopo gli interventi, venne aperto il dibattito. Un ex membro del Consiglio Legislativo (parlamento) palestinese in rappresentanza di Hamas si soffermò sull’efficacia di incutere paura attraverso l’uso della violenza. “A un certo punto – disse – gli israeliani erano terrorizzati a tal punto che non si sentivano più sicuri neanche nei ristoranti, negli autobus o per la strada, cosa che di per sé servì a scalzare tutti i piani israeliani”. Queste parole sull’atto di mirare a ristoranti e autobus richiamarono la mia attenzione, e la mia reazione spontanea fu quella di interrompere l’oratore per dire che, a quanto pare, esiste una errata concezione in campo palestinese circa la definizione di resistenza e i suoi metodi. La resistenza, dissi, non può significare la violazione delle leggi internazionali, né la deliberata uccisione di civili.
Come c’era da aspettarsi, fui immediatamente accusato di voler promuovere l’ideologia coloniale occidentalista e di adottare la retorica sionista e americana. Chi mi accusava sosteneva che la resistenza “in tutte le sue forme” non rappresenta mai un crimine di guerra, che è invece come cerca di presentare la faccenda l’occidente, e che non esistono civili nell’“entità” israeliana. Parole che suscitarono l’approvazione e gli applausi di parecchi dei presenti, mentre io insistevo che non è legittimo uccidere civili, a cominciare dai bambini.
Sin dall’inizio dell’intifada al-Aqsa vi sono stati numerosi attentati in cui molti israeliani sono stati uccisi e migliaia feriti, compresi minorenni. Le organizzazioni palestinesi che rivendicavano tali atti facevano ricorso a diversi argomenti per giustificarsi, innanzitutto quello secondo cui “tutti i mezzi sono legittimi nella lotta contro l’occupazione”. Un’altra posizione diffusa, specialmente nelle Brigate Martiri di al-Aqsa (Fatah), è quella che fa una distinzione fra attentati all’interno di Israele e attentati nei territori occupati, che alcuni percepiscono come legittimi. Questa argomentazione apre la questione dello status degli insediamenti e dei coloni nei territori occupati: hanno o non hanno diritto alla tutela che il diritto internazionale garantisce ai civili? Il che a sua volta solleva una questione più ampia: chi è “civile” in questo scenario? E soprattutto, i palestinesi come vedono gli israeliani, e viceversa?
Ma non sono solo i palestinesi che devono dare risposta a questi interrogativi. Il linguaggio delle convenzioni sui diritti umani e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono invischiate in contraddizioni e ambiguità riguardo a termini come “terrorismo”, “resistenza”, “autodifesa”, “insediamenti”, “necessità militari”.
Non basta. Al di là della legge stessa, è assolutamente necessario esigere che il diritto internazionale venga protetto dalle manipolazioni politiche: cosa particolarmente importante per le società israeliana e palestinese, fra le quali il diritto internazionale godrebbe di molta maggiore credibilità se si mettesse in campo un serio tentativo di spogliare delle consolidate influenze politiche gli organismi internazionali che utilizzano tale diritto.
Oggi persino i palestinesi che si riconoscono nelle norme internazionali si interrogano circa la possibilità concreta di mettere in pratica questi principi. Vi sono forti critiche contro quelli che vengono visti come motivi politici che stanno dietro al ricorso al potere di veto nel Consiglio di Sicurezza; e tali motivi vengono visti come contrari alla giustizia internazionale. Altri si scagliano contro quello che considerano un doppio standard, quando l’opinione pubblica internazionale chiede a libanesi e palestinesi di comportarsi in modo morale e lottare in modo non violento, mentre non ci si aspetta lo stesso da altre parti coinvolte nel conflitto.
Personalmente sostengono che i civili debbano essere protetti, e che questa responsabilità ricada su tutte le parti in gioco. Forse un accordo su questo punto potrebbe essere una chiave per accrescere l’apprezzamento palestinese dell’approccio non violento, che richiede al resistente di assumersi la responsabilità del conflitto anziché optare sempre per la ritorsione e per lo spargimento di sangue. Abbiamo il dovere di fare tutto ciò che possiamo per dimostrare che la non violenza è più efficace per realizzare la comprensione fra i popoli.
Forse dovremmo ricordare le parole del soldato semplice Boris Grushenko, un personaggio del film di Woody Allen “Amore e guerra” che diceva: “La battaglia appare completamente diversa a quelli che vi stanno in mezzo rispetto ai generali che la guardano dalla collina”.

(Da: Common Ground News Service, Jerusalem Post, 25-29.11.10)

Si veda anche:

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