Un piccolo branco di stupidi razzisti, per di più ignoranti

«Ho provato un senso di disgusto alla notizia degli episodi vandalici anti-arabi ad Abu Ghosh».

Di Boaz Bismuth

image_3764Per molti di noi la strada che porta a Gerusalemme significa fermarsi lungo il tragitto ad Abu Ghosh. Forse è per questo che ero così entusiasta quando, nel giugno 2004, prima di essere mandato in una capitale araba, fui invitato dal Ministero degli esteri israeliano a partecipare a Gerusalemme a un corso di un mese per dirigenti di consolato. Il corso mi offriva la preziosa occasione di far visita ogni giorno, durante il mio rientro a casa a Tel Aviv, ai miei amici Yaakov e Moussa Ibrahim, del ristorante Mifgash Hakaravan di Abu Ghosh. Così di giorno, al Ministero degli esteri, studiavo teoria e la sera, con Yaakov e Moussa, ricevevo lezioni su come applicare quelle teorie nella pratica: istruttive lezioni sulla coesistenza arabo-ebraica. Sapevo di non poter competere con Yaakov e Moussa su chi fa il humus migliore, ma con grande sorpresa scoprii che potevano darmi del filo da torcere anche su chi è più fiero di essere israeliano.
Ho provato un vero senso di disgusto alla notizia degli episodi vandalici anti-arabi di martedì ad Abu Ghosh. Pneumatici tagliati e vergognosi slogan scarabocchiati con lo spray sui muri della cittadina araba i cui abitanti, durante la guerra d’indipendenza del 1948, aiutarono i combattenti ebrei contro l’aggressione al neonato stato di Israele. Il che sostanzialmente ci dice quanto gli autori di questi vandalismi, oltre ad essere criminali e razzisti, sono anche un branco di ignoranti.
Ma se anche Abu Ghosh non fosse l’unica comunità araba che ci aiutò nella nostra guerra di indipendenza in quel tragico “corridoio” che collegava Tel Aviv a Gerusalemme (per sei mesi l’unica precaria via per rifornire la parte ebraica di Gerusalemme sotto assedio), saremmo comunque disgustati: non solo per il loro interesse, ma anche per il nostro. Questo genere di atti costituiscono un’offesa ai valori ebraici, ha ricordato martedì il primo ministro Benjamin Netanyahu. E ha ragione. La morale, l’ebraismo, l’essere israeliani, la legge ebraica: tutto concorre a respingere e condannare questi gesti. È ora che i responsabili vengano fermati. Bisogna capire che, oltre ai pneumatici, ai muri, agli ulivi, alle chiese e ai monasteri, questa banda di teppisti lede anche il buon nome del nostro paese. Nell’era della guerra combattuta sui mass-media, ogni singolo atto vandalico ha un peso e comporta un prezzo. Anche solo per questo, meriterebbero l’etichetta di “terroristi”.
Martedì ho telefonato al mio amico Moussa. Ad essere sincero, mi vergognavo un po’. Volevo chiedere scusa. Lui invece era tranquillissimo. “Non cambia un bel niente – mi ha detto – Qui ebrei e arabi hanno un rapporto di affetto, di parentela, di convivenza e di buon vicinato. Era così prima e così continuerà ad essere”.
Ma lo slogan “fuori gli arabi” non rischia di cancellare tutto questo? gli ho chiesto. Non potrebbe nuocere alle giovani generazioni?
“Stiamo parlando della minoranza di una minoranza – mi ha risposto – Costoro non rappresentano affatto il popolo ebraico”.
Moussa, che in gioventù ha studiato in una scuola ebraica, mi ha detto che gli abitanti della cittadina non vogliono sollevare un putiferio per quello che è successo. Un putiferio non farebbe che regalare pubblicità ai vandali aggressori. Per coloro che desiderano infangare il buon nome di Israele, gli attivisti del vandalismo anti-arabo sono in pratica dei complici.
Chi ha commesso questi atti scellerati non riuscirà a rovinare il meraviglioso tessuto della coesistenza ad Abu Ghosh. L’unica cosa che hanno ottenuto è farci ripartire da Abu Ghosh con l’amaro in bocca: un fatto che normalmente è davvero quasi impossibile.

(Da: Israel HaYom, 19.6.13)

Nella foto in alto: Boaz Bismuth, autore di questo articolo

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