Un progetto condiviso per il futuro d’Israele

Dopo quattro decenni di incertezze, oggi possiamo tornare alla Dichiarazione di Indipendenza.

Da un articolo di Gadi Taub

image_698L’elemento più decisivo nella società israeliana è il suo principio unificante, ciò che fa dire agli israeliani: “noi”. Questo elemento, anziché discendere direttamente dal passato, si proietta piuttosto vero il futuro. Sotto questo aspetto Israele non è diverso da altre società di immigrati che hanno dato vita a stati nazionali nei quali il senso comunitario di appartenenza non scaturisce tanto da esperienze condivise nel passato, quanto piuttosto da un progetto condiviso per un futuro.
Naturalmente gli ebrei hanno un lungo passato in comune, ma da solo quel passato non seppe promuovere una realtà politica, ed è appunto a questa mancanza che il sionismo si proponeva di porre rimedio. Ecco perché il sionismo è un movimento rivoluzionario. Perché prometteva – proprio come facevano gli Stati Uniti ai loro immigranti – un comune futuro più che un obbligo verso diversi patrimoni del passato.
Essendo una società fatta di immigrati, Israele – come gli Stati Uniti – conobbe un preciso momento di nascita nel quale annunciò il progetto per un futuro comune. Di nuovo come gli Stati Uniti, il progetto venne inscritto in una Dichiarazione di Indipendenza.
A differenza degli americani, però, gli israeliani non trattano la loro Dichiarazione di Indipendenza con molto riguardo. È un peccato, giacché gran parte della turbolenta storia di Israele può essere letta proprio alla luce di quel progetto-per-un-futuro-comune che indicava a chiare lettere chi siamo, o meglio cosa vogliamo di diventare.
Mentre il documento americano fonda la sua rivendicazione sui diritti individuali, la dichiarazione israeliana fonda la rivendicazione morale del sionismo su diritti collettivi. E ne indica due: uno, che la dichiarazione definisce “naturale”, è il diritto universale di “tutti i popoli” all’auto-determinazione; l’altro, che la dichiarazione definisce “storico”, è l’attaccamento specifico degli ebrei alla terra dei loro padri. Presi insieme, questi due diritti mirano a formare uno stato degli ebrei in Terra d’Israele basato su principi democratici. Israele doveva trasformare l’identità ebraica da un’identità radicata essenzialmente nella tradizione religiosa in una nuova identità moderna e nazionale. Doveva diventare il luogo dove il diritto universale all’auto-determinazione trovava applicazione per il caso specifico degli ebrei.
In questo contesto sorsero molte controversie su quali contenuti dare a questo progetto, su cosa della tradizione ebraica dovessimo trasferire nella sovranità statale e cosa lasciarci alle spalle.
A partire dalla guerra dei sei giorni, tuttavia, non è più il contenuto che viene discusso, quanto il contenitore. La controversia fra ciò che chiamiamo sinistra e destra, fra coloro che volevano includere i nuovi territori conquistati e coloro che volevano abbandonarli, verteva essenzialmente attorno ai più fondamentali principi che presiedono al nostro stato.
Ciò che scatenava il dibattito non era tanto il territorio aggiunto, quanto la popolazione aggiunta. Con una significativa popolazione araba improvvisamente finita sotto il controllo di Israele, ci trovammo di fronte a due alternative. A lungo termine – ma oggi è ormai questione solo di pochi anni – le tendenze demografiche avrebbero messo in minoranza gli ebrei nella regione a ovest del Giordano. Ridotti in minoranza, non avremmo più potuto preservare un paese che avesse contemporaneamente un carattere ebraico e democratico. O tutti possono votare, e il carattere ebraico dello stato verrebbe spazzato via dal voto; oppure possono votare solo gli ebrei, e allora il paese non sarebbe più democratico.
Apparentemente dovevamo scegliere tra attenerci al diritto naturale di tutti i popoli all’auto-determinazione o attenerci al diritto storico degli ebrei alla terra: non potevamo avere entrambi. Il centro dello schieramento politico ha finito per spaccarsi, dando vita a due concezioni opposte su quale dovesse essere il nostro futuro comune, su quale fosse l’essenza del progetto sionista: la destra storica vedeva come primo obiettivo del sionismo il riscatto di una terra; i suoi avversari, potremmo chiamarli i sionisti del diritto naturale, vedevano come primo obiettivo del sionismo il riscatto di un popolo.
Ecco perché la controversia sui territori occupati è diventata così lacerante: perché opponeva una contro l’altra due concezioni su ciò che vogliamo essere, assai più profonde di qualunque programma politico. Non si trattava semplicemente di un problema di natura politica: toccava una questione di identità. In una società fatta di immigrati, nella quale il progetto comune per il futuro è il vero principio fondante, un disaccordo su quel progetto chiamava in causa l’opzione stessa dell’esistenza di un “noi” israeliano.
Una delle due parti del dibattito, tuttavia, aveva un vantaggio sull’altra. Quella che chiamiamo sinistra non chiedeva di scegliere uno dei due pilastri originari come base della nostra identità. Essa proponeva una via per ricomporli. Se Israele si ritira da gran parte dei territori, può tornare ad abbracciare entrambi. Sebbene la destra abbia monopolizzato l’etichetta di “patriottismo”, era in realtà l’altra parte quella più patriottica. La destra, si è capito a poco a poco, tendeva di fatto a uno stato bi-nazionale. Era la sinistra che aveva le chiavi per ristabilire un’esistenza nazionale autentica, la via per tornare a un sionismo coerente, un sionismo che sia al contempo ebraico e democratico.
Se definiamo i nostri confini in modo tale da contenere un territorio nel quale gli ebrei siano, sul lungo periodo, una stabile maggioranza, possiamo tornare all’ideale originario inscritto nella nostra Dichiarazione di Indipendenza. E’ questo fattore fondamentale dell’esistenza nazionale d’Israele quello che più di ogni altro ha spinto alla fine un falco come il primo ministro Ariel Sharon a sostenere con forza il disimpegno (dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale). Giacché alla fine, restare aggrappati ai territori significa spaccare in due il sionismo. E con due progetti per il futuro, con due concezioni diverse su ciò che siamo, non vi sarebbe più nulla a tenere insieme questa società.
È come se, dopo quattro decenni di incertezze, saremo presto in grado di aderire nuovamente alla nostra Dichiarazione di Indipendenza, e nella sua interezza.

(Da: Jerusalem Post, 10.05.05)

Nella foto in alto: Gadi Taub, autore di questo articolo, insegna al Dipartimento Communications & Public Policy dell’Università di Gerusalemme.