Un ragazzo d’oro

Shai è uno dei 43 atleti israeliani handicappati che hanno partecipato a Pechino alle Paralimpiadi

Da un articolo di Stewart Weiss

image_2254La forza si manifesta in molti modi. Ci sono quelli fisicamente forti, li si vede farsi i muscoli in palestra o fare jogging al mattino presto lungo le strade; ci sono quelli spiritualmente forti, che conservano la fede in Dio nonostante difficoltà e tragedie; ci sono quelli che mostrano una forza emotiva eccezionale, resistendo durante crisi personali che distruggerebbero gente da meno. Ma in qualunque modo si misuri la forza, Shai Haim è un uomo molto, molto forte.
Shai è uno dei 43 atleti israeliani handicappati che hanno partecipato a Pechino alle Paralimpiadi, in corso fino al 16 settembre. Tra gli sport rappresentati, tennis, nuoto, kayak, vela, equitazione, ping-pong, tiro con l’arco, tiro al piattello e basket.
Shai è uno dei 12 giocatori della delegazione israeliana di basket su sedia a rotelle, selezionata tra gli oltre duecento giocatori che competono in varie strutture Beit Halochem (centri sportivi per veterani disabili) in tutto il paese. Shai è stato designato miglior giocatore della sua squadra di Herzliya il che gli è valso un posto nella squadra nazionale, la prima a qualificarsi per le Paralimpiadi in 16 anni.
La saga di Shai ha avuto inizio nell’esercito, dove serviva in un’unità d’élite anti-commando della Brigata Nahal. Era il ragazzo più robusto di tutti, con avambracci enormi e torace possente. I suoi commilitoni dicevano scherzando che preferivano stargli dietro nelle missioni, perché avrebbe bloccato i proiettili. “Amaro umorismo”, avrebbero confessato in seguito. Il 30 settembre 2002 l’unità di Shai prese parte a un’incursione contro il quartier generale di Hamas nella famigerata casbah di Nablus, dove trovarono una miniera d’oro di informazioni sulle attività terroristiche di quel gruppo, comprese liste di terroristi e progetti di attentati.
Nel bel mezzo della missione l’unità si trovò sotto il fuoco dei cecchini piazzati su un edificio vicino. Shai fu colpito per primo e crollò al suolo. Il suo migliore amico nell’unità, mio figlio Ari Weiss, si precipitò al suo fianco per aiutarlo e fu colpito anche lui da un proiettile che gli perforò un polmone, uccidendolo sul colpo.
Ma Shai sopravvisse. Fu trasportato di corsa in un ospedale da campo a Shavei Shomron, e poi all’ospedale Sheba di Tel Hashomer. Il proiettile si era fermato vicino alla spina dorsale; fu operato d’urgenza. Appena prima di entrare in sala operatoria, prima di perdere conoscenza, Shai scrisse su un pezzo di carta: “Il mio amico Ari è stato ucciso, per favore fate in modo che io possa andare al suo funerale”.
I chirurghi gli asportarono un rene e gli salvarono la vita, ma non poterono rimuovere il proiettile né riparare il danno al sistema nervoso. Dopo 48 ore gli annunciarono che sarebbe vissuto, ma non avrebbe mai più camminato. Altri sarebbero caduti preda della depressione, o della rassegnazione. Ma Shai rifiutò di farlo. Era sempre stato un atleta, eccelleva nella palla a mano e una delle sue prime domande al suo terapista fu se avrebbe dovuto abbandonare tutti gli sport. “No, se non vuoi – fu la risposta – Tu e solo tu deciderai quello che potrai fare d’ora in poi”.
Era quello che Shai voleva sentirsi dire. Passò quattro mesi in riabilitazione intensiva, lavorando strenuamente con i pesi, rafforzando la parte superiore del corpo e imparando a manovrare agilmente la sua sedia a rotelle. Ma soprattutto mantenne un atteggiamento fiducioso e positivo, che colpiva i suoi medici e quanti lo andavano a trovare. Un rabbino della Florida, che aveva letto di Shai ed era andato a trovarlo, mi disse in seguito: “Sono entrato nella sua stanza triste e pieno d’ansia per la sua situazione; ne sono uscito rasserenato, con una nuova sicurezza sulla forza dello spirito umano”.
Shai decise che non ci sarebbero state limitazioni nella sua vita. Un anno dopo essere stato ferito, sposò la sua ragazza Tamar, una kibbutznik anch’essa piena di forza di volontà che lo aveva aiutato a recuperare la salute e che incoraggiava la sua determinazione a eccellere. Al suo matrimonio – che ho avuto l’onore di officiare – Shai stupì la folla “camminando” lungo la navata grazie a speciali apparecchi a batteria, costruiti appositamente per lui e portati sotto i pantaloni, che sollevavano le sue gambe come se stesse camminando da solo. Quando fu recitata l’ultima benedizione, Tamar si tenne al suo braccio mentre “sollevava” il piede destro per la tradizionale rottura del bicchiere.
Il bicchiere non fu l’unica cosa che si infranse quella sera: si infranse il cuore di tutti quando Shai invitò gli altri ospiti del reparto handicappati a unirsi a lui in una speciale “danza delle sedie a rotelle”, dimostrando che anche loro potevano ballare a un matrimonio e parteciparvi in pieno.
Shai e Tamar partirono poi per un viaggio di tre mesi in Nuova Zelanda e Australia. “Ogni soldato ha un tiyul (lungo viaggio) dopo il servizio militare – disse Shai – e io non mi lascerò privare del mio”. Camminarono sulle montagne, fecero snorkeling sulla Grande Barriera Corallina e andarono perfino in bicicletta, con quella di Shai azionata con le mani che suscitava stupore dappertutto. “Quel viaggio dimostrò a Shai al di là di ogni dubbio che poteva andare dappertutto e fare qualunque cosa si fosse prefisso di fare”, dice Tamar.
Shai divenne un frequentatore regolare di Beit Halochem a Tel Aviv, una struttura incredibile che si occupa dei nostri soldati invalidi e offre laboratori di arti e artigianato, musica, computer, perfino danza. Shai giocava a tennis e a volano; poi decise di provare con il basket. Per quelli che non hanno mai visto una partita, il basket in sedia a rotelle è un gioco duro e aspro, con le stesse regole di base del basket regolare. I giocatori spesso si scontrano, le sedie a rotelle si rovesciano e giocatori rimangono sdraiati a terra. Nessuno li aiuta: loro vogliono così. Si rialzano, risalgono sulla sedia a rotelle e riprendono il gioco. “E’ il mio motto nella vita – dice Shai sorridendo – Niente lamenti e niente piagnistei: si riprende a giocare e basta”.
Shai è stato accompagnato a Pechino non solo da Tamar, ma anche dalla loro figlia Roni Bracha. Nata due mesi fa, dopo dodici trattamenti in vitro, è forse l’avvenimento più miracoloso di una lunga serie di avvenimenti mirabili nella vita di Shai. Non si sognerebbe di andare in Cina senza di lei: “Dove vado io, viene anche lei”, dice avvolgendola con le sue braccia possenti mentre la tiene in grembo.
Shai Haim – il cui nome significa “il dono della vita” – la sua una medaglia d’oro l’ha già vinta, e per sempre.

(Da: Jerusalem Post, 08.09.08)

Nella foto in alto: Shai Haim con la moglie Tamar e la figlia Roni Bracha