Un rifugio improbabile

Centinaia di musulmani in fuga dal Darfur si stanno ricostruendo una vita in Israele

Da un articolo di Seth Freedman

image_2056“Anche se siamo musulmani, il mondo islamico non ha fatto nulla per proteggerci” dice Yassin, un profugo la cui drammatica fuga dal Darfur alla fine lo ha portato tre anni fa in Israele. E’ stato uno dei primi darfuriani a riuscire ad entrare in Israele attraverso la frontiera con l’Egitto, e ha dedicato la sua vita ad aiutare i suoi connazionali che hanno compiuto lo stesso pericolosissimo viaggio.
Yassin, un gioviale ex-architetto trentenne, è ora direttore di Bnei Darfur [Figli del Darfur], un’organizzazione che aiuta i profughi sudanesi a integrarsi nella società israeliana, e che finalmente la settimana scorsa ha ricevuto lo status di ente non-profit dal governo israeliano. Seduto nel suo ufficio nel centro di Tel Aviv, Yassin dipinge un ritratto straziante del modo in cui i profughi darfuriani sono maltrattati dalle autorità, fredde e indifferenti, in Egitto, che è il primo porto di rifugio per i molti che fuggono dalla violenza in Sudan.
I figli del Darfur hanno paura di uscire di casa in Egitto per timore di essere aggrediti, spiega Yassin, ricordando il massacro di decine di profughi dopo una protesta fuori dal quartier generale dell’UNHCR nel 2005. “Non è che l’Egitto non si prenda cura dei profughi in generale – aggiunge – Dopo tutto, trattano molto bene i somali. Tuttavia, quando si tratta di noi, è diverso. E’ colpa del razzismo”.
Non è d’aiuto il fatto che i darfuriani accusino gli altri musulmani di genocidio, dice Yassin, osservando che gli stati musulmani che appoggiano il governo sudanese sostengono a loro volta che i profughi collaborano con gli “stati nemici” in occidente. “Tutti i paesi arabi appoggiano il governo del Sudan: il nostro problema è con la Lega Araba” dice Yassin scuotendo la testa, pensando al dramma della sua gente.
Dopo aver assistito al massacro di quasi tutta la sua famiglia durante un attacco della milizia al suo villaggio, fuggì per rifugiarsi in Egitto, ma presto fu costretto ad andarsene. Dopo l’accoglienza gelida e spesso violenta ricevuta dai profughi da parte degli egiziani, Yassin decise che le cose non potevano andare peggio sul versante israeliano del confine, nonostante l’indottrinamento anti-israeliano introiettato col latte materno in Sudan. “In patria il governo controllava tutti i media – dice – Le stazioni televisive, la radio, i giornali, tutti erano molto ostili verso Israele. Lo descrivevano come uno stato nemico pieno di assassini, e la causa di tutti i problemi del mondo”.
Sorride del paradosso per cui Israele si è rivelato l’unico paese dove lui e gli altri profughi hanno infine potuto trovare un rifugio, anche se all’inizio non è stato facile. “Quando l’esercito mi ha prelevato [per ingresso illegale], ho passato cinque giorni alla base in una stanzetta con cinque egiziani. Le condizioni erano terribili, e uno dei giudici era molto crudele e minacciava di espellermi di nuovo in Egitto. Mi disse che non ero il benvenuto in Israele perché ero di un paese nemico. Ma alla fine fui trasferito in una prigione più grande nel sud”.
Rimase 14 mesi in prigione, dove si legò ad altri profughi darfuriani e fondò un gruppo informale di supporto per aiutarsi a vicenda, insegnando inglese, arabo ed ebraico a quelli che avevano bisogno di istruzione.
Dopo qualche mese, la stampa israeliana cominciò a interessarsi della vicenda della crisi dei profughi, e presto diverse ONG e organizzazioni umanitarie diedero inizio a campagne per la loro scarcerazione. Se ne occupò anche l’Onu e infine molti dei profughi furono scarcerati e mandati a lavorare nei kibbutz del posto.
Tuttavia, una volta liberi, dovettero affrontare il pericolo dello sfruttamento da parte di datori di lavoro che approfittavano della loro mancanza di permessi di lavoro e di diritti, costringendoli a lavorare per una miseria in condizioni terribili. Di nuovo, l’intervento delle ONG locali fece cambiare idea al governo, che concesse a 600 dei 750 profughi lo status di residenza temporanea “A5”, mentre gli altri ricevevano protezione come richiedenti asilo politico.
Il resto è storia recente. Yassin e i suoi amici hanno formato Bnei Darfur, e hanno avuto un successo incredibile nella loro missione di creare una comunità auto-sufficiente “che non rappresenti un salasso per la società israeliana”. Ogni profugo ha un lavoro, una casa e accesso all’assistenza medica. “I soli senza lavoro sono quelli appena arrivati, e ce ne occupiamo al più presto”, dice Yassin. I bambini sono stati inseriti nelle scuole israeliane, dove imparano l’ebraico e fanno amicizia con i ragazzi del paese: il futuro appare oggi ben più roseo per quelli che sono riusciti a entrare in Israele.
Molti israeliani hanno sposato la causa dei darfuriani, perché agli ebrei nel corso di tutta la loro storia è stato spesso negato rifugio da parte di stati indifferenti, e perché gli ebrei israeliani ritengono di dover ricordare il proprio travagliato passato quando trattano con le vittime di oggi.
Tuttavia, mentre il modo in cui Israele – alla fine – ha accolto i profughi merita ammirazione, rimane aperto il problema che riguarda i profughi palestinesi. Ma il problema del cosiddetto “diritto al ritorno” dei palestinesi non è cosa di cui Yassin desideri parlare. Per quanto lo riguarda, Israele ha provveduto alla sua gente come nessun paese arabo avrebbe fatto, e di questo è eternamente grato. E in termini dell’immagine di Israele agli occhi dei profughi oltre che del mondo esterno, accettare i darfuriani che nessuno voleva è stata una mossa nello stesso tempo accorta e ammirevole.

(Da: commentisfree.guardian.co.uk, 24.03.08)