Un ritiro, non a caso, unilaterale

Il ritiro da Gaza non dipende dal comportamento dei palestinesi

di Abraham H. Foxman

image_712Il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom ha recentemente affermato di non vedere come Israele possa procedere con il ritiro unilaterale nel caso in cui Hamas dovesse vincere le elezioni a Gaza. Poco dopo, quello stesso giorno, interpellato dai giornalisti su cosa pensasse di questa affermazione, il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha replicato che il disimpegno non ha nulla a che fare con il comportamento dei palestinesi, in quanto è stato deciso nell’interesse di Israele indipendentemente da cosa fanno i palestinesi.
La spiegazione di Sharon è cruciale, giacché molti non sanno – o dimenticano – che Sharon decise di proporre il disimpegno già più di un anno fa non perché Israele avesse un interlocutore per la pace, ma proprio perché Israele non aveva un interlocutore per la pace. Sharon giunse alla conclusione che restare intrappolati a Gaza perché non c’è un interlocutore per la pace, e quindi nemmeno negoziati di pace, era contro gli interessi di Israele: pressioni internazionali, controllo sui palestinesi, andamenti demografici, crescente affermazione della soluzione basata su un solo stato (a maggioranza araba).
Il fatto che Arafat sia morto dopo che Sharon avanzò la sua iniziativa e sia stato rimpiazzato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), un leader che sembra offrire la prospettiva di essere un autentico interlocutore di pace, ha spinto alcuni a dimenticare che Sharon nel suo piano per lo sgombero dell’area non contava affatto su un interlocutore di pace. Così, quando sono emerse critiche circa sviluppi negativi in campo palestinese sotto Abu Mazen, Sharon ha risposto con logica coerenza basandosi sul suo assunto originario che ciò fosse irrilevante dal punto di vista delle prospettive del ritiro.
Naturalmente vi sono argomenti legittimi pro e contro il ritiro, ma un argomento che non regge è l’idea che il ritiro non vada fatto perché i palestinesi ora non si comportano in modo pacifico. È esattamente perché non si comportavano in modo pacifico che Sharon fu spinto a prendere la sua decisione.
Le argomentazioni di Silvan Shalom e altri con lui, benché non intacchino minimamente il disimpegno, tuttavia sono autenticamente rilavanti circa l’altra questione sul tappeto, e cioè se è cambiato qualcosa di sostanziale nell’approccio palestinese dopo la morte di Arafat. Inizialmente c’erano alcuni elementi che giustificavano un certo ottimismo, e alcuni di questi elementi restano validi. Primo, Abu Mazen non era Arafat, essendo quest’ultimo chiaramente un personaggio senza speranze, più interessato a distruggere lo stato degli ebrei che a costruirne uno palestinese. Secondo, Abu Mazen sembrava preoccuparsi di migliorare le condizioni di vita della sua gente; già come primo ministro sotto Arafat aveva espresso l’opinione che le decisioni di Arafat avevano messo a terra i palestinesi. Terzo, Abu Mazen respingeva il terrorismo come arma controproducente per i palestinesi; benché non fosse esattamente come condannare il terrorismo in quanto infame in se stesso, perlomeno faceva intravedere un leader disposto a ragionare in modo pragmatico.
Ora, diversi mesi dopo, non c’è ragione per liquidare tout-court queste ragioni per un timido ottimismo. È ancora troppo presto per arrivare a conclusioni definitive sulla dirigenza palestinese e tornare tout-court al più tetro pessimismo.
D’altra parte, vi sono sul terreno abbastanza indicatori che ricordano la miserabile storia dell’odio palestinese per Israele e delle loro politiche auto-distruttive, per cui gli avvertimenti alla cautela non sono fuori luogo. In particolare la dichiarata indisponibilità di Abu Mazen ad affrontare le strutture del terrorismo e cercare di pacificarle reclutandole nel processo politico. Una strategia votata al fallimento finché Hamas conserva la sua ideologia volta a distruggere lo stato degli ebrei e mantiene i suoi strumenti per assassinare israeliani, tendonsi strette le sue armi. E poi c’è la retorica, che suona sempre più famigliare a coloro che hanno tenuto d’occhio questi andamenti per decenni. Basta vedere i discorsi fatti da Abu Mazen e dal suo ministro degli esteri Nasser al-Kidwa al recente incontro a Brasilia fra stati arabi e stati sudamericani. Rispondendo alle preoccupazioni d’Israele circa la vittoria di Hamas alle elezioni, Abu Mazen ha detto: “Mi domando a che razza di democrazia credono gi israeliani?”. Al-Kidwa ha detto che Israele non mantiene mai i suoi impegni. Intanto in Cisgiordania si teneva un incontro fra differenti fazioni palestinesi le cui principali conclusioni non assomigliavano a nulla che potesse tendere a colmare il solco fra le due parti, quanto piuttosto alla vecchia ricetta per il disastro secondo la quale non ci può essere pace con Israele senza la piena attuazione del “diritto al ritorno” in Israele di milioni di profughi palestinesi e loro discendenti. In altre parole, il solito appello a continuare la lotta per la fine di Israele.
Dopo alcuni segnali iniziali sull’insegnamento dell’odio nelle scuole e la promozione dell’odio nei media, vi sono segnali più recenti secondo cui le cose non sono cambiate granché. Israele è ancora il nemico, la legittimità dello stato degli ebrei non si trova facilmente, continuano ad essere disseminate teorie complottistiche su israeliani ed ebrei. Dov’è finito l’impegno a promuovere un atteggiamento positivo per un futuro di pace?
Così, nonostante il decesso di Arafat e i segnali positivi provenienti da Abu Mazen, continuano a rullare i tamburi di quel negativismo, di quel revanscismo palestinese che ha fatto male agli israeliani per decenni, ma che ha fatto ancora più male agli stessi palestinesi.
Speriamo che Sharon e Abu Mazen nei mesi dopo il disimpegno trovino il modo di superare questa pantano che avvelena la regione da tanto tempo. Per ora è importante che mass-media e comunità internazionale capiscano che Israele procederà, sì, con il ritiro da Gaza, ma non grazie a un qualche cambiamento dei palestinesi verso la moderazione. E dopo il disimpegno, un rinnovato processo di pace potrà partire solo se avviene quel cambiamento. In caso contrario, Israele dovrà decidere per conto suo, come ha fatto riguardo a Gaza, quale sarà la politica migliore per i suoi interessi.

(Abraham H. Foxman, direttore nazionale della Anti-Defamation League, su YnetNews, 24.05.05)