Un summit può anche essere pericoloso

Da Oslo in poi, israeliani e palestinesi hanno visto infiniti vertici, conferenze e negoziati inutili

Da un articolo di Akiva Eldar

image_2612La storia fin troppo lunga del “processo di pace” ci ha insegnato che un summit può essere un obiettivo desiderabile, ma anche un luogo di insormontabili pericoli. Quando i partecipanti vi arrivano senza sufficiente preparazione e senza una rete di sicurezza, la profondità della caduta può essere tanta quanto l’altezza del vertice stesso. Vi è una grande differenza tra una tornata senza successo della diplomazia della spola fra Gerusalemme e Ramallah da parte dell’inviato del presidente e un fallito summit convocato dal presidente Barack Obama con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).
Nei sedici anni trascorsi da quando alla Casa Bianca vennero firmati gli Accordi di Oslo, israeliani e palestinesi hanno assistito a innumerevoli vertici, conferenze di pace, negoziati, intese e anche a tanti accordi scritti: tutti finiti in cocenti delusioni o, peggio, in ulteriori ondate di violenze.
Si può sperare che gli americani abbiano imparato dall’amara esperienza di Camp David del luglio 2000 che un summit tripartito non è solo un ennesimo evento mediatico, come un discorso fatto al Cairo o gli auguri di buon anno. Un incontro del presidente degli Stati Uniti con i leader delle due parti è l’equivalente diplomatico dell’“arma finale”.
Il termine “processo di pace” viene già messo sempre più spesso tra virgolette e suscita pesanti dosi di cinismo. Chi si ricorda cosa disse Obama al Cairo la primavera scorsa, o le dichiarazioni fatte ad Annapolis nel novembre 2007? Da allora, entrambe le parti hanno perduto quel che rimaneva della loro fiducia in una soluzione negoziata. Se anche il vertice di questo martedì terminerà con nient’altro che una stretta di mano a beneficio delle telecamere, che cosa dovranno aspettarsi?
Il summit di New York potrebbe far progredire le cose o farle precipitare: rimanere in surplace non è un’opzione contemplata. Netanyahu e Abu Mazen non sono gli unici giocatori in campo: ogni fallimento del campo pragmatico palestinese si traduce in una vittoria per il campo estremista palestinese. Abu Mazen ha scommesso la sua credibilità sugli americani e sulla loro capacità di influenzare i loro amici israeliani. Se Obama lo rimanda a casa a mani vuote, farà il gioco dei rivali di Abu Mazen a Gaza e a Damasco. Hamas non perderà l’occasione per presentare il summit come un’ulteriore prova di ciò che sostiene sin dai tempi degli Accordi di Oslo: che il sostegno per Fatah è debole. Per quanto tempo i poliziotti di Abu Mazen sopporteranno di sentirsi definire “collaborazioni con l’occupante”?
Il successo del vertice non si misurerà sulle dimensioni del congelamento degli insediamenti che Obama otterrà da Netanyahu. Persino i palestinesi sanno che poche centinaia di nuove abitazioni a Ma’aleh Adumim o Pisgat Ze’ev non fanno differenza rispetto ad una soluzione a lungo termine del conflitto. Affinché il summit eviti di ridursi all’ennesima nota a pie’ pagina nella storia del processo di pace, i partecipanti devono poter tornare a casa con una completa traduzione nel linguaggio dell’e azioni concrete degli slogan enunciati da Obama al Cairo. Obama non ha bisogno di reinventare la ruota. Tutto ciò che gli occorre è aggiornare il calendario della Road Map, da tempo tradotta nella risoluzione 1515 (2003) del Consiglio di Sicurezza.
La Road Map prevedeva che nel 2005 (cessati terrorismo e violenze) le parti arrivassero a una soluzione permanente che ponesse fine all’occupazione iniziata nel 1967. Prevedeva anche che l’accordo contemplasse una sistemazione negoziata per lo status di Gerusalemme e una soluzione concordata, giusta e realistica della questione dei profughi. Già due primi ministri israeliani, Ehud Barak e Ehud Olmert, hanno negoziato coi palestinesi su tutti questi temi, arrivando anche ad alcune intese. E come ricorda il presidente Shimon Peres (che oggi spinge la parti ad occuparsi, come prima fase, solo della questione dei confini), si può fare una frittata con le uova, ma non si possono fare delle uova da una frittata. (…)

Nella foto in alto: Akiva Eldar, autore di questo articolo