Un vero referendum fra i palestinesi

E' quello che dovrebbe approvare la formula: ognuno ha diritto di fare ritorno solo nel proprio stato

Da un articolo di Saul Singer

image_1256L’idea del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di indire un referendum sul “documento dei detenuti” viene considerata una mossa audace e astuta nella lotta di potere fra lui e Hamas. E probabilmente è entrambe le cose. Ma è anche un’occasione mancata.
Il documento, elaborato da eminenti terroristi di Fatah e Hamas detenuti in un carcere israeliano, viene descritto come ilo strumento con cui Abu Mazen può forzare Hamas a riconoscere Israele. Ma chiunque ne legga il testo può vedere da sé che esso non esaudisce nessuna delle condizioni poste a Hamas dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu): riconoscimento di Israele, conferma degli accordi precedenti, ripudio del terrorismo.
Il documento dei detenuti parla della creazione di uno stato palestinese su tutti i restanti territori finiti sotto controllo israeliano nel 1967, ma non dice nulla sul riconoscimento del diritto di esistere di Israele, né accetta gli Accordi di Oslo. Anzi, ribadisce ripetutamente il cosiddetto “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi, che è in totale contraddizione con la soluzione due-stati. Infine, lungi dal ripudiare il terrorismo, il documento prevede la creazione di un nuovo organismo che coordini la “resistenza” contro gli israeliani che si trovano al di là le linee del ’67.
Dunque, in che senso un voto su questo testo dovrebbe forzare Hamas ad accettare Israele? Non lo farebbe. Tutto ciò che farebbe sarebbe portare Hamas sulle posizioni dell’Olp del 1974, quando venne adottato il famigerato “piano a fasi” per la distruzione di Israele, secondo il quale i palestinesi avrebbe creato uno stato in Cisgiordania e striscia di Gaza come base da cui continuare la “lotta” contro Israele.
La triste verità è che, in termini palestinesi, questo è considerato un progresso. Ma il “progresso” può essere un passo indietro se si blocca in uno stallo. Se i palestinesi vogliono davvero distogliere Israele dalla sua tendenza attuale verso decisioni unilaterali, il solo modo per farlo è imitare l’incredibile trasformazione che gli israeliani hanno elaborato nel loro atteggiamento rispetto alla soluzione “due popoli-due stati”.
La gente tende a dimenticare dove stavano gli israeliani nel 1993, appena prima che entrassero in scena gli Accordi di Oslo. L’opinione generale era che la creazione di uno stato palestinese coincidesse con una sorta di suicidio nazionale per Israele. Da allora l’opinione generale israeliana si è ribaltata. L’opposizione allo stato palestinese si è ridotta a una frazione minoritaria nella Knesset e nell’opinione pubblica. L’ex falco della destra Ariel Sharon e il suo successore Ehud Olmert non solo hanno fatto propria la prospettiva di uno stato palestinese, ma hanno adottato il concetto della sinistra secondo cui creare uno stato palestinese è necessario per preservare il carattere ebraico e democratico di Israele. “Disimpegno” e “convergenza” sono essenzialmente dei modi per forzare la creazione di uno stato palestinese nonostante l’opposizione dei palestinesi.
L’offensiva terroristica in corso, iniziata nel settembre 2000, venne lanciata per consacrare il rifiuto di Yasser Arafat dello Stato indipendente che gli era stato offerto da Israele quell’estate al summit di Camp David. Quel rifiuto non si basava sul territorio, dal momento che Israele aveva offerto di ritirarsi quasi completamente e avrebbe accettato anche di cedere proprie terre per compensare i blocchi di insediamenti che avrebbe annesso. I palestinesi non hanno lanciato una guerra terroristica su una disputa territoriale del 5%. Hanno lanciato la guerra terroristica perché non volevano cedere sul “diritto al ritorno”, accettando davvero e definitivamente il diritto di Israele ad esistere.
Israele non solo accetta, ma vuole uno stato palestinese. L’unico vero ostacolo alla creazione di uno stato palestinese è l’idea dei palestinesi di distruggere Israele demograficamente attraverso il “diritto al ritorno”.
Sin dall’inizio, la soluzione due-stati richiedeva due elementi essenziali e paralleli: l’accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese, e l’abbandono da parte palestinese di un presunto “diritto al ritorno” dentro Israele (oltre che all’interno di quello che diventerà o stato palestinese).
Dal 1993 gli israeliani hanno adempiuto alla loro parte dell’intesa in modo quasi incredibile. Nel corso del contorto processo Yitzhak Rabin ci ha rimesso la vita e il sistema politico israeliano è stato sconvolto. Nello stesso periodo i leader palestinesi non hanno nemmeno iniziato a preparare la loro gente alle “dolorose concessioni”, tant’è che il “documento dei detenuti” continua imperterrito a invocare emotivamente il “diritto al ritorno”, e lo ribadisce una mezza dozzina di volte.
Se Abu Mazen voleva rompere questo circolo vizioso, doveva indire un referendum su un documento assai diverso: la dichiarazione di principi elaborata dall’ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon e dal presidente dell’Università Al Quds Sari Nusseibeh (originale in inglese: http://www.mifkad.org.il/en/index.asp; traduzione in italiano: http://www.hakeillah.com/4_03_14.htm). Questa dichiarazione, fino ad oggi firmata da 254.000 israeliani e 161.000 palestinesi, afferma, fra l’altro: “I profughi palestinesi torneranno solo nello Stato di Palestina, gli ebrei torneranno solo nello Stato di Israele”.
Si immagini se Abu Mazen trovasse il coraggio di sottoporre questo documento a referendum, lanciando così un vero dibattito fra palestinesi se accettare uno stato e fare la pace con Israele: sarebbe un dibattito amaro, forse anche violento, ma credo che Abu Mazen ne uscirebbe vincente. In quel caso l’unilateralismo israeliano perderebbe ragion d’essere e i colloqui sulla composizione finale del conflitto potrebbero riavviarsi rapidamente.
Ammettiamo pure che un tale scenario sia irrealistico perché comporterebbe l’abbandono improvviso di decenni di indottrinamento sulla sacralità del “diritto al ritorno”. Anche in questo caso, comunque, non vi sono scuse perché Abu Mazen, per non dire di Hamas, si rifiuti anche solo di iniziare a dire ai palestinesi che non potranno avere la pace senza abbandonare una pretesa che è in contraddizione col diritto di Israele ad esistere.
E le cose non sono rese più facili dalla comunità internazionale. Mentre il mutamento di posizione di Israele è arrivato accompagnato da massicce pressioni internazionali perché gli israeliani accettassero uno stato palestinese, l’Europa e persino gli Stati Uniti non premono apertamente sui palestinesi affinché abbandonino il concetto di “diritto al ritorno” in Israele. Anche la lettera di George Bush a Sharon prima del disimpegno da Gaza, che indicava sostegno per le posizioni di Israele, vi alludeva solo nel contesto dei colloqui sullo status finale. Perché Abu Mazen dovrebbe fare concessioni sul “diritto al ritorno” prima dello status finale, se persino gli Stati Uniti non affermano a chiare lettere che questa loro richiesta è in contraddizione con il diritto di Israele ad esistere, con la soluzione due-stati e dunque con la pace?
Le speranze di pace sorgeranno quando cesserà l’indottrinamento dei palestinesi e i suoi effetti saranno completamente ribaltati. La cosa migliore che la comunità internazionale potrebbe fare per far avanzare la pace sarebbe incoraggiare questo processo critico fra i palestinesi, esprimendo apertamene l’aspettativa che i loro leader vi partecipino.

(Da: Jerusalem Post, 8.06.06)

Nella foto in alto: il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad (a sin) mentre riceve domenica a Teheran il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Mahmoud Zahar (Hamas)