Una Finlandia in Medio Oriente

Con gli intricati conflitti che proliferano tutt’attorno, Israele sta coerentemente adottando un atteggiamento da paese neutrale

Di Amotz Asa-El

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

C’è stato un tempo in cui la Svizzera era diventata la metafora di ciò che Israele non avrebbe mai potuto avere: ricchezza, Alpi e neutralità. Se le vette eternamente innevate restano qualcosa di esotico, il successo economico della Svizzera non è più così distante da Israele, né lo è la sua neutralità. Sta emergendo una nuova mentalità israeliana che spinge Gerusalemme a fare il possibile per tenersi al di sopra della rissa di conflitti mediorientali in continua proliferazione, rendendosi conto che i suoi interessi in quei conflitti sono o vaghi o contraddittori, e che schierarsi può solo essere controproducente.

La neutralità – come politica e come ideale – è qualcosa che circola da due secoli, durante i quali è stata identificata in primo luogo con la Svizzera, emersa con questo proposito dalle guerre napoleoniche. A differenza di altri paesi storicamente neutrali come l’Austria e la Svezia, la Svizzera non ha aderito all’Unione Europea che la circonda, e fino allo scorso decennio nemmeno alle Nazioni Unite.

Questa osservanza quasi religiosa della neutralità rimarrà un sogno per Israele. Ciò che Israele si trova sempre più spesso a emulare, invece, è il modello finlandese: un piccolo paese incuneato tra due grandi rivali, che si è mantenuto al di fuori della loro rissa diplomatica pur impegnandosi economicamente con entrambi. Nella guerra fredda, l’Urss era per la Finlandia ciò che il mondo arabo sta gradualmente diventando per Israele: un gigante vicino con un passato ostile e un presente più pragmatico.

I finlandesi, che vennero invasi dall’Unione Sovietica nel 1939 e combatterono coraggiosamente l’Armata Rossa prima di dover cedere terra in cambio di pace, dopo la seconda guerra mondiale non entrarono né nella Nato né nel Patto di Varsavia. Pur rimanendo una democrazia e un’economia di mercato, e un paese ovviamente occidentale sotto ogni aspetto culturale, compravano armi e petrolio dall’Urss e vendevano ai sovietici legname e prodotti finiti: scambi che a un certo punto arrivarono complessivamente a contare per il 20% del commercio estero della Finlandia. In altre parole, gli ex nemici, pur essendo rimasti ideologicamente avversari, coltivavano tuttavia la collaborazione fra loro fin dove potevano.

Ora, nel momento in cui Israele si guarda intorno e annovera i conflitti in rapido aumento nei quali non ha nessun cavallo su cui puntare, le sue scelte assomigliano sempre più a quelle della Finlandia nella guerra fredda.

Dimostranti iraniani all’assalto dell’ambasciata saudita a Teheran

Dimostranti iraniani all’assalto dell’ambasciata saudita a Teheran

Il numero di conflitti da cui Israele si è trovato circondato dal 2010 è sconcertante. Quello che era iniziato come uno scontro in Tunisia tra democrazia e tirannia è poi diventato, in Egitto, un assalto islamista contro laici e cristiani; e quella che era iniziata in Siria come una rivolta contro il regime ha ben presto generato una Armagheddon tra sunniti e sciiti che si è successivamente propagata in una guerra etnico-religiosa nello Yemen e, prima di quella, in una guerra tribale in Libia. A queste si aggiungono ora uno scontro tra Mosca e Ankara, e un altro tra Riad e Teheran, oltre alla decomposizione dell’Iraq e all’ascesa dello “Stato Islamico” (ISIS). Nel frattempo nasce una relazione fra l’alleato d’Israele, l’America, e il castigamatti iraniano, mentre Russia ed Egitto, che un tempo formavano il più potente asse anti-israeliano, ora affiancano Israele nel contrastare un’insurrezione islamista nel Sinai.

Di fronte a questa vertiginosa confusione strategica, alcuni sostengono che la caratteristica principale è la spaccatura tra sunniti e sciiti, e che Israele sarebbe saldamente posizionato sul lato sunnita. Il che è molto inesatto. Sì, l’universo sciita è attualmente ostile a Israele, a differenza dei tempi in cui l’Iran dello Scià era il suo principale alleato regionale. E’ anche vero, però, che non esiste un analogo ancoraggio sunnita. E poi lo stesso mondo sunnita è a sua volta diviso tra l’ISIS e gli altri, e anche fra Egitto e Turchia. Israele ha degli oggettivi alleati sunniti, ma nella frattura interna all’islam non ha alcun ruolo da giocare. Praticamente ovunque volga lo sguardo, la scelta che appare migliore per Israele è quella di starsene zitto e in disparte. Che è anche la sua propensione.

Combattenti peshmerga in Kurdistan

Combattenti peshmerga in Kurdistan

In Siria, considerando l’alleanza del governo di Damasco con l’Iran ci si poteva aspettare che Israele si schierasse con i nemici del regime di Bashar Assad. Il che non è successo. Invece Israele si è reso conto ben presto che, nonostante la sua repulsione per il curriculum di Assad sia verso Israele che verso il suo stesso popolo, quelli in grado di prevalere sul dittatore potrebbero essere molto peggio di lui. Il risultato è una rigorosa politica di neutralità, sottolineata dall’assistenza medica prestata dalle Forze di Difesa israeliane alle vittime della guerra civile. Una neutralità interrotta una sola volta, e marginalmente, quando l’anno scorso l’esercito israeliano ha avvertito che non avrebbe permesso che si consumasse un massacro nel villaggio druso di al-Hadr, al di là della recinzione di confine sul Golan. La politica di Gerusalemme di attaccare gli invii di armi siriane verso Hezbollah in Libano non vuole essere, né viene vista come uno schierarsi all’interno della guerra civile.

Lo stesso meccanismo è in gioco con le altre guerre civili arabe. Israele non dice nulla e, a quanto pare, non fa nulla circa i combattimenti in Libia, nello Yemen e in Iraq, né per le lotte in corso in Libano e nel Bahrain. Ovviamente, quando si tratta dello scontro fra gli stati sunniti e l’Iran, e della loro guerra contro il terrorismo islamista, Israele non è neutrale. Ma è pur sempre una cooperazione superficiale. La parte araba non vuole essere vista apertamente come compagna di danza d’Israele, e anche Israele preferisce che la sua collaborazione con un governo come quello dell’Arabia Saudita rimanga discreta. Ecco perché Israele non dice apertamente nulla circa la rottura di Riad con Teheran, anche se ovviamente condivide i timori della parte saudita. Persino in Egitto, dove Israele è chiaramente dalla parte del governo al-Sisi nella sua guerra contro i suoi avversari islamisti, l’aiuto di Gerusalemme si muove lontano dagli occhi del pubblico.

Anche con il Kurdistan iracheno, dal quale pure – stando a notizie da fonti estere – Israele acquista oggi buona parte del suo petrolio, i rapporti rimangono segreti e informali. Certo, i curdi sono visti a Gerusalemme come un investimento a lungo termine, un alleato naturale con alle spalle una storia di aiuti israeliani che risale agli anni ‘60. Ma in questi giorni di incessanti e improvvise conflagrazioni a dritta e a manca, Israele fa del suo meglio per non apparire schierato.

Il cartello sul Monte Bental, nel Golan israeliano, al confine con la Siria

Il cartello sul Monte Bental, nel Golan israeliano, al confine con la Siria

Questo atteggiamento è stato particolarmente evidente nella lite turco-russa. Gerusalemme non ha detto nulla circa la spaccatura tra Vladimir Putin e Recep Erdogan. Nel frattempo, come faceva la Svizzera durante le due guerre mondiali, lo stato ebraico fa affari con le due parti, traendo di fatto vantaggi dai ridotti scambi commerciali fra loro. La decisione russa di smettere di comprare frutta e verdura turca apre naturalmente ad alternative israeliane, mentre la paura della Turchia di dipendere dalle forniture di gas russe la sta conducendo a cercare forniture alternative da Israele. A completare il tutto, la Turchia vorrebbe ripristinare il flusso di turisti israeliani, prosperato fino all’incidente della Mavi Marmara del 2010, con i quali spera di compensare il turismo russo che ha appena perso per ordine di Putin. Israele può permettersi questo tipo di aperture alla Turchia perché i belligeranti generalmente tollerano che i paesi neutrali facciano affari con i loro nemici. E tuttavia, il riavvicinamento appena accennato fra Israele e Turchia innervosisce altri nemici di Ankara – i greci e i ciprioti – che Gerusalemme aveva coltivato come alternative strategiche dopo la rottura da parte di Erdogan dell’alleanza che i suoi predecessori turchi aveva stretto con lo stato ebraico. Il risultato in continuo sviluppo di questi processi contraddittori è lo stesso che accade tra Israele e i curdi: neutralità politica e impegno economico. E’ questo che il primo ministro Benjamin Netanyahu andrà a promuovere, quando incontrerà i leader di Grecia e Cipro fra due settimane a Nicosia. Naturalmente Israele non è neutrale quando si tratta dell’uomo Erdogan, ma la Turchia come paese è una questione diversa. Ecco perché, sulla falsariga dei vivaci affari della Finlandia con gli antagonisti della guerra fredda, Israele offrirà sia ai turchi che ai loro avversari storici cospicue quote del gas che ha iniziato a estrarre nel Mediterraneo. Economicamente, Israele offrirà alla Turchia affamata di idrocarburi un’alternativa preziosa al gas russo, mentre ai Greci finanziariamente in difficoltà offrirà una spinta economica altrettanto preziosa nella forma di un gasdotto verso l’Europa. Politicamente, tuttavia, Gerusalemme dirà ai suoi clienti che non intende prendere posizione nelle dispute fra loro. Dirà che è neutrale.

In passato Israele ha cercato di contribuire a rimodellare la regione almeno due volte: la prima, nel 1982, quando sperava di democratizzare il Libano allora in piena guerra civile, e di arrivare con esso a un accordo di pace; e poi nel 1993, quando cercò di ispirare l’avvento di un “nuovo Medio Oriente” attraverso il processo di pace coi palestinesi e coi paesi arabi. Entrambi gli esperimenti sono tragicamente falliti. Tutti i decisori politici israeliani sono segnati da questi fallimenti, e lo sono anche i leader dell’opposizione. Si differenziano sul prezzo che Israele dovrebbe essere disposto a pagare, un giorno, per la pace; ma concordano sul fatto che Israele non può rimodellare la regione, né immischiarsi nei suoi conflitti. Quello che può fare è commerciare silenziosamente con i suoi vicini, tenendosi fuori dai loro scontri sempre più intrattabili. E’ l’opzione più sensata per un piccolo paese che vive all’ombra di grandi belligeranti. Basta chiederlo ai finlandesi.

(Da: Jerusalem Post, 17.1.16)