Una saga che sa un po’ troppo di James Bond

Le autorità del Dubai lanciano false esche, o forse brancolano nel buio

di Yossi Melman

image_2758La faccenda si fa sempre più complicata conducendoci, perlomeno all’apparenza, in territori più che stupefacenti, addirittura selvaggi, che è arduo valutare con strumenti razionali e professionali.
Ventisei agenti, forse addirittura trenta, mandati ad uccidere una persona? Potendo andarsene via mare, come si può pensare che degli agenti del Mossad siano andati a rifugiarsi proprio in Iran – mi domando – quand’anche fossero dotati di una sicumera senza precedenti, come non se n’era mai vista finora.
Senza nulla voler togliere alle sue capacità, il capo della polizia di Dubai si è fatto vanto che le sue indagini sarebbero assai più professionali dell’operato della gente del Mossad (cui egli imputa l’operazione); ma bisogna tenere in considerazione l’eventualità che possa essersi fatto un po’ trascinare dall’entusiasmo per ciò che riteneva d’aver scoperto.
Non c’è dubbio che una parte non piccola delle informazioni che egli va divulgando o passando sottobanco ai mass-media fa parte di uno stratagemma col quale vengono seminati bocconi di disinformazione: chiaramente sta gettando delle esche nella speranza che qualcuno in Israele abbocchi e reagisca compromettendosi o svelando informazioni riservate.
La cosa ha preso inizio con la messa in circolazione della voce che sul corpo di Mabhouh vi fossero segni di forza bruta, a riprova che era stato torturato prima d’essere ammazzato. È persino circolata la voce che i suoi killer l’avessero legato con cavi elettrici. In realtà, è poi saltato fuori che per dieci giorni la polizia di Dubai aveva creduto che Mabhouh fosse morto di cause naturali, per cui chiaramente non era stato torturato.
Ora il mondo viene imbeccato con nuove informazioni, a quanto pare ancora più drammatiche, circa i quindici (o diciassette) nuovi sospetti resi noti dal ministero dell’informazione di Dubai, e non dalla polizia. Il capo della polizia, infatti, che ha attirato tanta attenzione internazionale, pare non stia fremendo dalla voglia di far progredire l’inchiesta: la scorsa settimana era fuori ufficio per ragioni personali, e ora viene annunciato che è in pellegrinaggio alla Mecca.
Difficile credere che, posto che sia stato il Mossad ha compiere l’operazione, coloro che l’hanno progettata siano stati così irresponsabili da mandare una trentina di agenti, esponendo su una singola uccisione mirata un’intera unità operativa specializzata. Dubbio che rimane anche se ipotizziamo che l’architetto dell’operazione ritenesse di dover colpire l’obiettivo costi quello che costi, ed anche nell’ipotesi che Mabhouh fosse diretto in Iran per concludere un acquisto di armamenti che Israele riteneva avrebbero seriamente modificato il rapporto di forze.
Dunque: o le nuove rivelazioni sono solo un’ulteriore raffica nella guerra psicologica condotta dal Dubai, oppure gli investigatori della polizia del Dubai brancolano nel buio.
Probabilmente non si saprà mai la verità. Le prove che collegano Israele all’affaire sono molto esili: certamente sarebbero insufficienti in un’aula di tribunale, ma anche nella sfera diplomatica.
E tuttavia la saga fa arrivare a Hamas un chiaro messaggio deterrente: che il lungo braccio di chiunque abbia compiuto l’operazione potrebbe colpire anche altri importanti esponenti di Hamas.

(Da: Ha’aretz, 25.2.10)

Nella foto in alto: Yossi Melman, autore di questo articolo