Una società forte, tradita dalle elite del politicamente corretto

Dopo la guerra in Libano, linvettiva di un celebre editorialista israeliano

Da un articolo di Ari Shavit

image_1351In questa amara estate 2006 Israele si confessa sorpreso. Sorpreso dalla grande quantità di razzi Katyusha e di missili Al-Fajr e Zelzal. Sorpreso dalla quantità di razzi anti-carro e dal grado di preparazione delle squadre Hezbollah che li manovrano. Sorpreso dalle dimensioni dei bunker mimetizzati, dalla tenuta della catena di comando e controllo, dalle tattiche di combattimento e dalla determinazione dei suoi nemici. Sorpreso dall’incredibile forza che può mettere in campo un esercito relativamente piccolo ma con forti motivazioni religiose e votato alla morte.
Israele si confessa sorpreso anche dalla scoperta dei propri punti deboli. Sorpreso dalla modestia della leadership nazionale. Sorpreso da strategie sorprendentemente pasticciate. Sorpreso dalla mancanza di visione, di creatività e di determinazione da parte degli alti comandi militari. Sorpreso dai buchi dell’intelligence, dall’illusoria rete logistica, dalla mancanza di preparazione. Sorpreso dal fatto che la macchina da guerra israeliana non è quella di una volta, che si è arrugginita.
(…) Cosa diavolo ci è successo? Ci è successa una cosa piuttosto semplice. Ci siamo fatti drogare dal “politicamente corretto”. Quel politicamente corretto che, almeno da una generazione, ha finito per dominare il discorso pubblico israeliano, ma che era totalmente staccato dalla situazione del paese, privo com’era degli strumenti necessari per fare i conti con la realtà di un conflitto esistenziale, degli strumenti per fare i conti con la realtà di un conflitto fra religioni e fra culture. Ecco perché si concentrava esclusivamente sulla questione palestinese. Si basava sul presupposto – infondato – che l’occupazione fosse la fonte di ogni male, sul presupposto che fosse l’occupazione quella che impediva la pace, provocando sommosse e instabilità perpetua.
Allo stesso tempo, il politicamente corretto presupponeva che la soverchiante forza di Israele fosse un dato di fatto acquisito. Che Israele fosse mostruosamente forte. Di conseguenza il politicamente corretto sdegnava ogni tentativo di accrescere e preservare la forza di Israele. Il budget della difesa veniva tagliato, i valori del volontarismo derisi, concetti come eroismo e coraggio disprezzati. Dal momento in cui le Forze di Difesa israeliane vennero identificate come un esercito d’occupazione – e non come un esercito che difende, ad esempio, le donne e gli omosessuali dai fanatici del Medio Oriente – sono diventate un elemento alieno. Dopotutto, nel mondo del politicamente corretto contemporaneo, forza ed esercito sono diventate parole volgari. (…)
E poi è successa un’altra cosa. Ci siamo fatti intossicare da un’idea illusoria di normalità. Lo stato di Israele è sostanzialmente uno stato anomalo. Semplicemente perché è uno stato ebraico in una regione che si vuole araba, perché è uno stato occidentale in una regione che si vuole islamica, e perché è uno stato democratico in una regione di regimi dispotici e fanatici, Israele è in tensione costane con i suoi vicini. D’altro canto, proprio per la situazione in cui si trova, Israele non può vivere una normale vita all’europea. Ma, per via dei suoi valori e della sua struttura in termini di identità, di economia, di cultura, Israele non può che essere parte della normalità europea. Pertanto Israele si trova in una condizione di costante contraddizione. L’unico modo per risolvere tale contraddizione è quello di creare una anomalia positiva – etica e ideologica – che dia una risposta all’anomalia negativa in cui Israele si trova. Israele deve approntare un involucro difensivo che protegga il suo ambiente interno dall’ambiente esterno che lo circonda. Vivere in una sfida costante con l’ambiente circostante fa parte dell’essenza stessa della vita di Israele.
Ma nel corso dell’ultima generazione questa cruda consapevolezza è andata dissipandosi, si è diffusa l’illusione d’aver risolto tutti i problemi e d’aver raggiunto la condizione di tranquillità, e che si potesse vivere in questo luogo come qualunque altra nazione. Questa illusione portò a una situazione in cui l’anomalia positiva israeliana si appannò gradualmente e vennero drasticamente ridotte le energie dedicate al mantenimento dello scudo difensivo che protegge Israele dal resto della regione. La determinazione a difendersi si è indebolita. La bolla in cui vivevano ha talmente inebriato gli israeliani che non si sono nemmeno dati la pena di completare per tempo un muro fortificato attorno ad essa. E così la pressione dall’ambiente esterno è andata continuamente crescendo – con il terrorismo del 2002-2003, i Qassam del 2005, le Katyusha del 2006 – fino a penetrare profondamente dentro l’ambiente israeliano. E così si è creato il paradosso per cui proprio coloro che volevano credere che Israele potesse vivere una vita completamente normale sono quelli che ne hanno favorito il declino verso una situazione caotica di totale anormalità e perdita di equilibrio.
Sia il “politicamente corretto” che la “illusione di normalità” si sono radicate innanzitutto fra le elite israeliane. La popolazione in generale è rimasta per lo più assennata e forte. Non si è cullata con le illusioni di un nuovo Medio Oriente. Non ha voltato le spalle all’imperativo esistenziale, all’ethos della difesa, alle Forze di Difesa israeliane. Ha preservato i suoi valori centrali. Ecco perché ha saputo resistere meravigliosamente sia alla prova dell’ondata terroristica del 2002-2003, sia a quella della “guerra dentro casa” del 2006. Ha dimostrato doti di resistenza e di coraggio quasi britanniche, e continua a farlo.
Per contro, le elite israeliane degli ultimi vent’anni si sono sempre più allontanate dalla realtà. I mondi del capitale, dei mass-media e dell’accademia degli anni ’90 e del primo decennio del XXI secolo hanno abbagliato Israele, privandolo del suo spirito. Le loro reiterate illusioni circa la realtà storica in cui si trova lo stato ebraico hanno condotto Israele su strade sbagliate. I loro incessanti attacchi, diretti e indiretti, al nazionalismo, al militarismo e alla narrativa storica sionista hanno eroso dall’interno le radici dell’esistenza israeliana, ne hanno prosciugato la forza vitale. Mentre la popolazione in generale dimostrava serietà, determinazione ed energia, le elite erano un fallimento.
Anziché elite costruttive, quelle dell’ultima generazione sono diventate elite demolitrici. Ciascuna nel proprio campo, ciascuno col proprio metodo si sono dedicate alla decostruzione dell’impresa sionista. Passo dopo passo, i membri al vertice della società hanno abbandonato lo sforzo per l’esistenza nazionale. Hanno smesso di servire nella riserva, hanno smesso di mandare i propri figli nelle unità combattenti. Hanno deriso gli ufficiali che mettevano in guardia dai ritiri unilaterali. Hanno deriso gli ufficiali che avvertivano che le riserve d’emergenza si stavano vuotando e che i nemici diventavano sempre più forti. Hanno illuso se stessi e quelli attorno a loro che Tel Aviv fosse una specie di Manhattan, dove i soldi in pratica sono tutto. E così hanno trasmesso ai giovani israeliani un patrimonio di valori che rende difficile per loro andare all’attacco anche quando l’attacco è pienamente giustificato. (…) Ma nel Medio Oriente del XXI secolo un paese le cui giovani elite non sono in grado di rischiare la vita e di uccidere per difendersi è un paese con i giorni contati, un paese che non può durare.
E dunque quello che si rivela ai nostri occhi non è il fallimento delle Forze di Difesa israeliane, bensì il fallimento delle elite che hanno voltato le spalle alle Forze di Difesa israeliane. Quello che si rivela, oggi, nel momento in cui Israele non è in grado di difendere in modo appropriato la vita dei suoi cittadini, non è un problema di comandi o di tattiche. È un problema profondamente radicato in una società abbandonata dalle sue elite.
Di solito si accusano generali ambiziosi e politici guerrafondai. Ma alla fine di questa guerra l’accusa deve essere rivolta a un intero ceto di leader e di opinion makers israeliani che sono vissuti in una bolla e hanno fatto vivere il paese in una bolla. All’esercito si chiederà di mettere ordine dentro casa e di ricostruirsi, ma la vera rabbia sarà diretta verso le elite che hanno fallito. Elite che hanno tradito la fiducia di una nazione forte, saggia e commovente. (…)
Israele ha cercato con tutta la sua anima e tutte le sue forze di essere Atene. Ma in questa parte del mondo non c’è futuro per una Atene senza un pizzico di Sparta. Pertanto, dopo decenni in cui destra, sinistra e centro hanno dato per scontata la forza di Israele e l’hanno dispendiosamente deteriorata, ora non c’è altro da fare che mettere in vetta alle priorità la ricostruzione della forza di Israele. Stiamo tornando all’appuntamento col nostro destino, tornando a ciò che ci è destinato dalla realtà della nostra vita.

(Da: Ha’aretz, 13.08.06)

Nella foro in alto: Haifa sotto i razzi Hezbollah