Una vergogna e uno scandalo

La pasqua (ebraica) di un arabo (israeliano)

Da un articolo di Sayed Kashua

image_1646Avevo di nuovo sbagliato le previsioni. Ero sicuro che fuori fosse bello, ma mi sbagliavo. Le notti a Gerusalemme sono ancora fredde. […] Non sono tornato indietro a prendere un cappotto; anzi, sono corso alla macchina e ho messo al massimo il riscaldamento. Sono sicuro che farà caldo a Beit Avi Hai, ho pensato. Era la prima volta che venivo invitato. Farò parte di un gruppo di discussione, qualcosa che ha a che fare con gli scrittori e Pesach [la pasqua ebraica]. C’era un annuncio su Achbar Ha’ir, la guida settimanale degli eventi a Gerusalemme, che diceva che il tema era “Chi è chametz?” [il pane lievitato, proibito a Pesach dalla tradizione ebraica]. Per strada riflettevo che era un enigma piuttosto facile per il pubblico che probabilmente avrebbe partecipato. Il moderatore sarebbe salito sul palco e avrebbe chiesto “Chi è chametz?”, cioè lievitato, cioè – in questo contesto – impuro? E tutti avrebbero indicato me. Verrà stato estratto un premio tra tutti quelli che avranno dato la risposta esatta, e il vbncitore avrà l’opportunità di darmi fuoco seduta stante. Il solo pensiero era sufficiente a scaldarmi.
Sono arrivato 15 minuti in anticipo. Posso farcela, ho detto a me stesso mentre parcheggiavo davanti all’edificio, su Via Keren Kayemet. Ho camminato rapidamente lungo Via King George fino a Via Hama’alot e di là alla Casa degli Artisti di Gerusalemme. Tre minuti. “Un whisky Black Label”, ho detto subito, accendendo un’ultima sigaretta. E’ una cosa che mi calma sempre prima di parlare di fronte ad un pubblico, ed ora ne avevo bisogno più del solito, con Beit Avi Hai, Pesach, chi è chametz. “Lo faccia doppio”, ho detto al barista che mi metteva davanti un bicchiere e lo riempiva generosamente.
Devo di nuovo fare l’arabo simbolico, mi sono detto con disprezzo; devo di nuovo fare l’oggetto della disputa, essere al centro di un dibattito sull’integrità e la giustizia di quelli che abitano a Sion. Non so perché ho accettato l’invito, forse perché conosco l’organizzatore. O forse questa è un’altra decisione sbagliata, un’altra di tutta una serie di decisioni sbagliate che sono orami una routine. Mentre scolavo il bicchiere ho cercato di ricordare l’ultima volta che avevo preso una decisione giusta e non ci sono riuscito. Ancora cinque minuti. Ho preso un biglietto da 200 shekel e l’ho dato al barista. “Colpisci di nuovo”. Ho ingoiato. Ho pensato che avrei fumato l’ultima sigaretta andando a Beit Avi Hai.
La camminata per arrivarci dimostrò che avevo esagerato un po’: due doppi a stomaco vuoto. Ma non c’è bisogno di totale concentrazione in questo genere di occasioni. Con la mia esperienza posso spiattellare le mie solite argomentazioni anche dormendo: “il problema è il carattere dello stato”, “non c’è posto per gli outsider in uno stato etnico”. E poi quell’altra frase chiave: “Il problema è che l’ebraismo è tanto una religione quanto una nazionalità”.
Sono arrivato puntualissimo. Ho stretto la mano ai miei colleghi scrittori e ci siamo sorrisi a vicenda. Il pubblico consisteva di una ventina persone, o forse meno, non ci vedevo molto distintamente. Il moderatore ha cominciato a leggere dalle opere dei partecipanti, e poi la discussione è diventata politica. Chi è un israeliano? Che cos’è un laico? Qual’è il legame tra israeliano ed ebreo? Come si risolve?
Mi ci è voluto un po’ per mettere a fuoco e ascoltare i miei tre colleghi. Sì, avevo sentito bene, non mi sbagliavo e non era colpa del whisky. Yehoshua Sobol diceva a Nir Baram che era ora di chiudere le frontiere del paese, basta aliyah libera, basta corsie preferenziali ai potenziali immigranti in quanto ebrei. Secondo Sobol, il comitato che deciderà il diritto alla cittadinanza accetterà profughi ebrei e palestinesi allo stesso modo, secondo chiari criteri civili.
Mi pareva che Alona Kimhi non avesse alcun problema con quanto andava dicendo Sobol. Era anzi molto critica sull’occupazione, e durissima nei confronti del governo. In generale, i partecipanti alla discussione ritenevano che fosse arrivato il momento di istituire festività per tutti gli israeliani, comuni ad arabi ed ebrei, come si addice a una democrazia laica nell’era post-moderna.
“Un momento”, mi sono ritrovato in piedi sul palco davanti al pubblico a rimproverare gli scrittori seduti vicino a me. “Ma cosa state dicendo? Vi rendete conto che state revocando la Legge del Ritorno? Capite che cosa significa? Non lasciate alcuna ragion d’essere all’esistenza di questo stato. Avete idea di quello che state dicendo o la fama letteraria vi ha dato alla testa? Proprio la Legge del Ritorno? Vediamo come ve la caverete con una maggioranza araba in questo paese, sapientoni. E’ questo che avete da dire su Pesach, è questo che avete da dire sulla festa della libertà, sulla schiavitù? Dopo tutto quello che abbiamo subito in Egitto, è questo che avete da dire? Dopo l’Olocausto? E’ una vergogna, una vergogna e uno scandalo”.

(Da: Ha’aretz, 08.04.07)

Nella foto in alto: Sayed Kashua, lo scrittore arabo israeliano autore di questo articolo