Uno slogan da smontare

Ma è poi vero che non esiste soluzione militare al terrorismo?

Da un articolo di Evelyn Gordon

image_1851“Non esiste soluzione militare al terrorismo”. È così raro, di questi tempi, che questo mantra venga messo in discussione, che è stato quasi scioccante leggere sulla prima pagina di Ha’aretz, testata leader in Israele della teoria della “inesistente soluzione militare”, il seguente commento: “Si sostiene comunemente che è impossibile sconfiggere il terrorismo. Ma negli ultimi sette anni di intifada le Forze di Difesa e i servizi di sicurezza israeliani sono andati molto vicino a quella che si potrebbe definire una vittoria sul campo. Gli israeliani uccisi dal terrorismo dall’inizio del 2007 sono stati: due soldati (uno in Cisgiordania e uno nella striscia di Gaza) e sei civili (tre per un attentato suicida a Eilat, due per missili Qassam a Sderot e uno accoltellato a morte a Gush Etzion). Per quanto tragico, si tratta di un numero di vittime molto basso se messo a confronto con il numero di attentati che, nello stesso periodo, sono stati organizzati ma sventati, e con il numero di vite mietute quando l’intifada era al suo apice, nel 2002: 450 israeliani uccisi. L’ultimo attentato suicida che i terroristi sono riusciti a realizzare nel cuore di Israele risale all’aprile 2006: diciotto mesi fa. La formula che ha prodotto questi risultati è nota – prosegue Ha’aretz – Energica raccolta di informazioni di intelligence, barriera di sicurezza fra Israele e territori, completa libertà d’azione delle Forze di Difesa nelle città cirsgiordane”.
Se questa non è una vittoria militare, è sicuramente la sua più prossima approssimazione che la maggior parte degli israeliani sono ben disposti ad accettare. Ecco perché la rilevazione dello scorso giugno del sondaggio periodico “Indice della Pace” ha trovato una schiacciante maggioranza di israeliani ebrei contrari all’idea di fare ai palestinesi altre concessioni sulla sicurezza, con il 79% contrario a dare armi alle forze dell’Autorità Palestinese, il 71% contrario alla rimozione di posti di blocco, e il 54% contrario all’ulteriore scarcerazione di detenuti. Sono pochi i cittadini di questo paese disposti a smantellare delle misure di sicurezza che hanno contribuito a ridurre i morti israeliani da 450 a 8 nell’arco di cinque anni.
Il che spiega anche lo sorprendente mutamento d’opinione degli israeliani riguardo a Sderot, rilevato dall’Indice della Pace dello scorso agosto, con ben il 69% degli israeliani ebrei che oggi appoggiano l’idea di una vasta operazione di terra nella striscia di Gaza per fermare i lanci di Qassam contro il sud di Israele, mentre lo scorso dicembre i favorevoli erano solo il 57%. Di più, questo sostegno risulta trasversale agli schieramenti politici: anche coloro che votano i partiti di sinistra, laburista e Meretz, sono favorevoli, al 64% e al 67% rispettivamente, a una decisa operazione militare a Gaza.
È chiaro che questo mutamento d’opinione in parte si è prodotto perché nel frattempo erano state esaurite tutte le altre opzioni. Il sondaggio di dicembre cadeva un mese dopo che Hamas aveva dichiarato un “cessate il fuoco” a Gaza: sebbene la tregua non tenesse, molti ancora speravano che prima o poi avrebbe funzionato. Ad agosto ogni speranza era svanita. Non solo i Qassam continuavano a cadere su Sderot con un ritmo quasi quotidiano mentre la “tregua” era ancora ufficialmente in vigore, ma a maggio Hamas aveva addirittura esplicitato il suo spregio per la “tregua” rivendicando più di cento Qassam lanciati in una singola settimana. Non basta: a dicembre Mahmoud Abbas (Abu Mazen) aveva ancora formalmente il controllo sulla striscia di Gaza e molti speravano ancora che avrebbe agito concretamente per far cessare i lanci di missili. In agosto Hamas aveva orami assunto il pieno controllo.
Il fatto che Israele a Gaza abbia innanzitutto perseguito soluzioni non militari ricorda il suo comportamento durante i primi diciotto mesi di intifada. In quel periodo Gerusalemme aderì a vari cessate il fuoco (sempre immediatamente violati), evitò di reagire persino quando gli attentati suicidi colpirono nel cuore di Israele (alla discoteca Dolphinarium di Tel Aviv e alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme), e in generale cercò di far sì che le forze di sicurezza palestinesi riprendessero il controllo della situazione nei territori di loro competenza. Poi però, mentre il numero di vittime cresceva tragicamente soprattutto all’interno di Israele, apparve del tutto chiaro che la soluzione non sarebbe mai arrivata dall’Autorità Palestinese. Così, nel marzo 2002 Israele riprese il controllo della Cisgiordania con l’Operazione Scudo Difensivo, e il numero di vittime israeliane iniziò a diminuire vistosamente, già quell’anno e poi ogni anno successivo.
C’è tuttavia una differenza cruciale fra i primi anni dell’intifada e il recente tentativo israeliano di arrivare a una soluzione non militare a Gaza. Gli israeliani preferirebbero sempre evitare di mettere a repentaglio la vita dei loro soldati; oggi però sanno qualcosa che nel 2002 non sapevano: e cioè che l’opzione militare può funzionare. Dopo tutto, resta vero che dalla Cisgiordania non è stato lanciato un solo Qassam. Quindi gli israeliani, senza aspettare la leadership dall’alto, danno il loro sostegno a un’azione militare, anche se i politici ancora la rifiutano con determinazione.
Alla luce di questa crescente consapevolezza del pubblico israeliano, appare bizzarro che autorevoli politici e alti ufficiali continuino a ripetere il mantra che “non esiste soluzione militare al terrorismo”. Ma costoro, se non altro, capiscono che nella pratica le misure difensive israeliane in Cisgiordania funzionano, e che pertanto sospenderle sarebbe una pessima idea (per non dire di quanto sarebbe impopolare fra gli elettori).
Viceversa, organismi e diplomatici internazionali non arrivano a capire nemmeno questo. Tutti, esaminando i dati anche solo per cinque minuti, potrebbero capire che, a partire dal 2002, le misure militari in Cisgiorsania hanno drasticamente ridotto il numero di vittime israeliane, specialmente all’interno di Israele. Eppure continuano a proclamare che quelle misure sono inutilmente vessatorie e che devono essere eliminate. La stessa Condoleezza Rice usa ogni sua visita in Israele per fare pressioni su questo argomento, mentre la Banca Mondiale di recente ha chiesto di nuovo che Israele rimuova i posti di blocco, apra i confini con Gaza e ripristini la libertà di movimento tra Gaza e Cisgiordania.
Ma potrebbe anche trattarsi di ignoranza simulata, volta a coprire una precisa volontà: quella di sacrificare vite di israeliani pur di sfoggiare “progressi” nel processo di pace. Il rapporto della Banca Mondiale, ad esempio, afferma con grazioso eufemismo che “i costi sono soggettivi per ciascuna parte, ed esulano dall’ambito di questo rapporto”, risparmiandosi in questo modo la necessità di ammettere che il costo più probabile sarebbe pagato in vite di israeliani uccisi. E aggiunge che “tutte le parti dovranno impiegare maggiori risorse e assumersi maggiori rischi di quanto abbiano fatto in passato”. Davvero non sanno in cosa consistono quei “rischi” tenuti così prudentemente impliciti?
In ogni caso, questa voluta cecità non fa che perpetuare il conflitto giacché garantisce che non venga affrontato quello che è uno dei principali ostacoli che impediscono la soluzione: il terrorismo palestinese.
Nel 1993 molti israeliani speravano che un accordo di pace avrebbe posto fine al terrorismo. Quattordici anni più tardi, dopo aver subito più caduti per terrorismo palestiense nel dopo-Oslo che in tutti i 45 anni precedenti, la maggior parte degli israeliani è arrivata alla conclusione che la soluzione militare che si presume inesistente protegge in realtà assai meglio la loro vita. E finché non vi sarà prova concreta della volontà e della capacità dei palestinesi di assolvere questo compito altrettanto bene o persino meglio, non si troverà una maggioranza di israeliani disposta ad appaltare la loro sicurezza all’Autorità Palestinese in cambio di un accordo su un pezzo di carta.

(Da: Jerusalem Post, 26.09.07)