Uno Stato, una legge, una forza dell’ordine

La bancarotta della sovranità palestinese mostra agli israeliani cosa accade a una nazione incapace di attuare questo principio

M. Paganoni per NES n. 11, anno 20 - dicembre 2008

image_2348“La mia soluzione per salvaguardare uno Stato che sia ebraico e democratico è quella di avere due stati nazionali con limiti ben definiti. Quando ci saranno due stati per due popoli, potremo rivolgerci agli arabi israeliani e dir loro: la vostra sovranità nazionale si realizza altrove, non in Israele. Qui siete cittadini con pari diritti, ma siete cittadini dentro uno Stato che è la sede nazionale del popolo ebraico”. Questo concetto, che il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni di recente ha ribadito parlando a un gruppo di liceali (Jerusalem Post, 11.12.08), ha suscitato molto scalpore, fin quasi ad insinuare che la leader di Kadima sia diventata fautrice del famigerato “trasferimento” (o espulsione) degli arabi da Israele. In realtà, la Livni dice una cosa che è al contempo ovvia e importante. Dovrebbe essere ovvio, infatti, che “due stati per due popoli” significa due stati nazionali, uno arabo e uno ebraico. Ed è importante ribadire che le minoranze non-ebraiche dentro Israele, pur avendo titolo ad ogni diritto come singoli cittadini, non devono aspirare a forme collettive di autonomia o autogoverno in quanto minoranza nazionale, eventuale anticamera di future rivendicazioni para-secessioniste di qualche porzione del paese. In questo senso, mette in chiaro la Livni, le aspirazioni nazionali arabo-palestinesi troveranno espressione nel futuro Stato palestinese e solo in quello, così come quelle ebraiche trovano espressione nello Stato d’Israele.
Il concetto, aggiungiamo noi, non è del tutto ovvio nemmeno in campo ebraico. E non pensiamo tanto, qui, alla equivoca concezione sedicente post-sionista (in realtà anti-sionista) di coloro che amano propugnare uno Stato d’Israele “di tutti i suoi cittadini” (espressione codificata per intendere: uno Stato spogliato di ogni carattere ebraico e sionista), fino a prospettare lo Stato unico detto “bi-nazionale”, cioè in pratica a maggioranza arabo-islamica e dunque arabo-islamico tout-court. Il che, appunto, sarebbe in contraddizione con la soluzione “due popoli-due stati”.
Pensiamo piuttosto a quei gruppi di estremisti israeliani che, asserragliati in qualche insediamento come a Hebron, non solo militano esplicitamente contro la spartizione della Terra, ma sembrano voler prefigurare una sovranità ebraica alternativa a quella dello Stato d’Israele, quando non ad esso apertamente contrapposta. Una contrapposizione che assume le forme dell’ingiuria, dell’eversione, della violenza fisica. “Osservando le scene dell’occupazione non autorizzata e dello sgombero forzato di una casa a Hebron – scrive Sergio Della Pergola (Ucei informa, 9.12.08) – si ha l’impressione che in certi ambienti sia in atto il movimento costituente dello Stato di Giudea: un’entità che non riconosce la legalità di Israele, incluse le sue forze armate, e ha una propria politica alternativa, di alto profilo mediatico e non aliena dall’uso delle armi. Ciò avviene dopo 40 anni di laissez faire da parte di chi non ha voluto o saputo chiarire senza equivoci che una e indivisibile è la sovranità dello Stato d’Israele, una la sua legge, una la sua forza dell’ordine, uno il suo interesse geopolitico”.
“Gli ebrei anti-sionisti del gruppo Naturei Karta – nota il Jerusalem Post in un suo editoriale (5.12.08) – si oppongono allo Stato ebraico perché il Signore non ha ancora inviato il Messia. Invece, questi coloni estremisti sganciati dal tradizionale campo del nazionalismo religioso ebraico, sono arrivati al punto di contrapporsi allo Stato perché interpretano le sue politiche e le sue istituzioni come contrarie al volere del Signore. Da qui derivano i loro comportamenti. Ma noi – continua il giornale israeliano, facendo propria una presa di posizione congiunta di Likud, Israel Beiteinu, Kadima e Laburisti – condanniamo senza riserve quei coloni che si sono comportanti in modo inammissibile, scagliando pietre e insulti all’indirizzo del personale di sicurezza: quello stesso personale a cui spesso, un istante dopo, devono rivolgersi per essere difesi dai palestinesi. Condanniamo gli estremisti per aver provocato risse con la popolazione araba del posto, per aver violato moschee, abitazioni, veicoli e cimiteri. Vi è uno scollamento ormai inconciliabile fra coloro che sono disposti a praticare o giustificare la violenza dei coloni estremisti imbevuti di follia messianica, e la stragrande maggioranza del pubblico israeliano; tra coloro che si sono ormai sganciati dall’impresa sionista, certamente imperfetta, con le sue forze armate e le sue istituzioni politiche, e la stragrande maggioranza di chi vuole preservare lo stato di diritto”.
Anche un’osservatrice come Evelyn Gordon, che pure lo scorso settembre spese parole controcorrente per sostenere che è nel cattivo funzionamento del processo decisionale democratico israeliano che va cercata l’origine della deriva anti-sistema di questi giovani estremisti, oggi sente il bisogno di ribadire che, in ogni caso, “il teppismo è qualcosa che nessuna società può tollerare e dunque bisogna far rispettare la legge con maggior rigore: coloro che si sono posti fuori dalla legge devono incorrere nei rigori della legge e in una condanna sociale senza ambiguità. Una società controlla dai teppisti non merita d’essere abitata: basta dare un’occhiata all’Autorità Palestinese”. (Jerusalem Post, 11.12.08).
“Quando Theodor Herzl scrisse nel suo diario, la sera del primo Congresso sionista (1897) ‘oggi a Basilea ho fondato lo Stato ebraico’ – nota Shlomo Avineri (Ha’aretz, 10.12.08) – riteneva d’aver dato agli ebrei ‘il sentimento di appartenere a un unico consesso nazionale’. Fino ad allora gli ebrei non solo non avevano un territorio, ma neanche un’autorità istituzionale che parlasse a nome della nazione e ne rivendicasse la sovranità. Questo era il profondo significato del Congresso, dell’elezione di organismi rappresentativi, del versamento dell’obolo volontario”. Il fatto che oggi due opposte interpretazioni religiose (quella alla Naturei Karta e quella dei coloni estremisti) possano portare alla radicale delegittimazione dello Stato d’Israele deve far riflettere: “almeno per quanto riguarda il pubblico ebraico, la minaccia più insidiosa al sionismo non giunge tanto dalla estrema sinistra detta post-sionista, quanto da gruppi di profonda osservanza religiosa”, con una forte erosione dell’approccio tradizionalmente rappresentato dal partito nazional-religioso. “Le scelte di David Ben Gurion di fronte al disarmo della nave Altalena e del Palmach – continua Avieri – possono essere criticate per inflessibile intransigenza, ma si fondavano sulla consapevolezza che uno Stato, per reggersi, deve esprimere un’autorità condivisa e riconosciuta, anche se talvolta bisogna ricorrere a misure drastiche per affermarla e preservarla. L’attuale bancarotta della sovranità palestinese rappresenta il più chiaro esempio di cosa può accadere a una nazione la cui leadership si dimostri incapace di capire o di attuare questo principio”. La posizione dei Naturei Karta, che si rifiutano di rispettare la sovranità israeliana, e quella degli estremisti di Hebron che definiscono “antiebraico” il governo di Gerusalemme e danno del “nazista” ai soldati di Tzahal indicano che il processo avviato da Herzl e Ben Gurion non è ancora completato. “In questo senso – conclude Avieri – è vero che siamo ancora nell’esilio”.