Verso la pace. Unilateralmente

Benché il piano di disimpegno punti, come Oslo, a uno stato palestinese, c’è tuttavia una differenza fondamentale.

Alcuni commenti dalla stampa israeliana

image_237Scrive Ha’aretz: La versione riveduta del piano di disimpegno approvata domenica scorsa dal governo israeliano merita d’essere sostenuta nonostante i giri di parole che vi sono stati inseriti. La condizione ottenuta da coloro che si opponevano al piano nella sua prima versione, è che lo sgombero di insediamenti dovrà essere preceduto da un dibattito e da un ulteriore voto. Alla lettera, dunque, il piano non contiene un obbligo assoluto per il governo a sgomberare insediamenti: “Immediatamente dopo il lavoro preparatorio, si terrà una discussione… che terrà conto delle circostanze di quel momento per decidere se e quali insediamenti saranno sgomberati”. Di fatto, tuttavia, la decisione contiene un impegno esplicito e importante dal quale non sarà possibile recedere: per qualunque governo, sarà estremamente difficile ignorare un piano che, nel corso della discussione, si è guadagnato un vasto sostegno nell’opinione pubblica israeliana, compresi molti elettori del Likud, e che gode dell’appoggio degli Stati Uniti. La decisione del governo israeliano comporta conseguenze di vasta portata, ma il suo valore potrebbe essere vanificato se il governo vorrà annacquare la sua stessa decisione. Dopo aver compiuto i primi passi positivi sull’accidentata strada politica del piano di disimpegno, il governo Sharon deve ora fare i passi successivi, senza ritardi e con impegno sincero. Se Sharon non riuscirà a superare questa prova nazionale nelle prossime settimane per mancanza di determinazione o per voluti ritardi, il suo insuccesso sarà imperdonabile.

Scrive il Jerusalem Post: La decisione del governo israeliano marca un cambiamento di paradigma paragonabile a quello di Oslo, puntando nella medesima direzione ma lungo un percorso sostanzialmente diverso. A differenza di Oslo [che rinviava la questione insediamenti a un negoziato futuro], la decisione attuale del governo israeliano afferma esplicitamente che l’attuazione del piano comporterà lo sgombero di insediamenti. E afferma anche che il piano è unilaterale, cioè “non dipende della cooperazione dei palestinesi”. Come il processo di Oslo, anche il piano di disimpegno israeliano va nel senso della creazione di uno stato palestinese. Ma, in pratica, è come se cercasse di arrivare a quell’obiettivo contro la stessa volontà dei palestinesi. E’ come se Ariel Sharon fosse diventato un fautore dell’indipendenza palestinese più deciso e risoluto di Yasser Arafat. Benché il piano di disimpegno condivida con Oslo, e con la Road Map, l’obiettivo di arrivare a uno stato palestinese, c’è tuttavia una differenza fondamentale: il piano israeliano non implica la pretesa che questo stato sarà in pace con Israele. Oslo si basava sull’assunto che il mondo arabo fosse pronto a fare la pace con Israele, per cui tutto ciò che restava da fare per Israele era cedere territori e stabilire confini. Per contro, la premessa su cui si basa il piano di disimpegno è che “attualmente non esiste un interlocutore sul versante palestinese con cui sia possibile compiere reali progressi di pace in un processo blaterale”. Pertanto la pace potrà arrivare solo fissando linee meglio difendibili e migliorando la posizione diplomatica di Israele, almeno finché non vi saranno cambiamenti sostanziali nel mondo arabo. Alla comunità internazionale, che da tanto tempo insiste affinché Israele prenda decisioni come questa che ha appena preso, spetta il compito di dimostrare che i rischi e le sofferenze che si è assunta e si assume la popolazione israeliana vengono davvero riconosciuti, e che ai palestinesi verrà chiesto di prestare fede alle loro responsabilità internazionali.

(Da: Ha’aretz, Jerusalem Post, 8.06.04)