Vittime senza nome

Quando si cede al ricatto dei terroristi bisognerebbe guardare negli occhi le vittime di domani

Da un articolo di Uri Orbach

image_2185Siamo qui riuniti, oggi, per guardarli negli occhi. Non ci sono stati ancora comunicati i loro nomi, ma sappiamo più o meno di chi si tratta e chi sono i loro famigliari e parenti in lutto. Non sono diversi da quelli che abbiamo conosciuto finora.
In effeti, dal momento che facciamo ricorso a frasi come “immagina se fosse tuo figlio a essere in ostaggio” o “cosa non daresti pur di riportare a casa tuo fratello in ostaggio”, dovremmo come minimo aggiungere alla mozione degli affetti anche tutti coloro che moriranno, saranno feriti o presi in ostaggio nel prossimo futuro. Il loro unico difetto è che non hanno ancora un volto e un nome.
Tutte le statiche degli anni scorsi dimostrano che, in una buona percentuale dei casi, le prossime persone che moriranno di terrorismo saranno uccise dai terroristi che stiamo per scarcerare nello scambio con Hamas, e che il prossimo sequestro di ostaggi sarà organizzato dai terroristi che stiamo scarcerando nello scambio con Hezbollah. In altre parole, i nomi degli assassini e dei sequestratori li conosciamo già; quelli che non conosciamo ancora sono solo i nomi delle loro prossime vittime.
Gli sventurati genitori dei prossimi soldati presi in ostaggio probabilmente in questo momento stanno leggendo i titoli dei giornali e probabilmente pensano che è giusto, che dobbiamo fare di tutto pur di ottenere il rilascio dei soldati sequestrati e portare a casa i nostri ragazzi. Hanno ragione, naturalmente. Ma quello che intendono non è fare davvero “di tutto”.
Ad esempio, se il detenuto palestinese che viene scarcerato con questo accordo fosse quello stesso che fra poco fabbricherà la cintura esplosiva che scoppierà su un autobus uccidendo il loro figlio – poniamo – nell’ottobre 2011, allora probabilmente quei genitori vedrebbero la cosa in modo diverso. Se quei genitori, i cui nomi e i cui volti il pubblico ancora non conosce, potessero leggere i giornali del futuro, vedrebbero titoli come quelli di oggi: “abbiamo aspettato questo figlio per tanti anni e adesso non ci resta più niente”. Forse, in questo caso, oggi non sosterrebbero l’accordo di scambio.
Davvero non so quale sia la cosa giusta da fare. Vi sono senz’altro buoni argomenti da tutte le parti. In questo momento ci stiamo occupando della sorte di Gilad Shalit, un prezioso ragazzo, un soldato il cui nome e la cui foto abbiamo davanti agli occhi. In questo momento vediamo i suoi bravi e coraggiosi genitori. In questo momento vediamo anche i famigliari di Eldad Regev e Udi Goldwasser. E allora forse questa è la decisione giusta da prendere, perché li conosciamo, e perché è urgente e vitale portare a casa i nostri ragazzi, mentre il futuro è ancora di là da venire e chissà che cosa ci riserverà veramente.
Ma se dobbiamo ragionare con la pancia, se adottiamo la logica del “portarli a casa a qualunque costo”, allora sarebbe bene sapere qual è realmente quel “costo”, e ragionare con la pancia anche riguardo al futuro: giacché, se il discorso ha da essere demagogico, che sia almeno una demagogia equilibrata.
Eppure, signor primo ministro, la miglior cosa da fare sarebbe ponderare bene la questione, assumersi rischi calcolati, e usare il cervello anziché la pancia. Giacché, chi prende le sue decisioni in base al fatto d’aver trascorso l’intera giornata guardando negli occhi i famigliari degli ostaggi, dovrebbe guardare negli occhi anche coloro che moriranno in futuro, anche se sono ancora senza nome.

(Da: YnetNews, 15.07.08)

Nella foto in alto: L’autore di questo articolo